«Questa volta più di 400 seggi». È lo slogan con cui pochi mesi fa il Bharatiya Janata Party (Bjp, letteralmente: Partito popolare indiano) si è presentato alla più grande elezione al mondo, promettendo di consolidare il sistema politico messo a punto nell’ultimo decennio da Narendra Modi.
Il partito che da dieci anni governa l’India era certo che avrebbe migliorato il risultato delle passate elezioni, in cui aveva ottenuto da solo la maggioranza assoluta dei seggi.
L’obiettivo era quello di superare i due terzi dei 543 seggi della Camera bassa del Parlamento indiano, la Lok Sabha, che costituisce la soglia per cambiare la Costituzione e aprire la strada a una nuova India, sempre più sotto il segno del nazionalismo indù.
Per la democrazia indiana sarebbe potuto diventare un punto di non ritorno. Questo l’allarme lanciato da attivisti e opposizione, preoccupati dall’ulteriore accentramento del potere nelle mani di Modi e dalla discesa del Paese nel “populismo autoritario”.
L’elezione più vasta di sempre
Invece il responso delle urne è stato diverso. Alla fine i seggi vinti dal partito di Narendra Modi sono stati solo 240, il numero più basso da quando il 73enne del Gujarat è salito al potere. Per la prima volta dal 2014 il suo partito non ha ottenuto la maggioranza assoluta e dovrà fare affidamento anche sugli alleati. Nonostante il flop, Modi ha comunque avuto i numeri per conquistare uno storico terzo mandato, l’unico premier nella storia indiana a raggiungere questo traguardo dopo il fondatore della moderna repubblica, Jawaharlal Nehru. Un risultato di cui Modi si è detto «molto, molto contento». «La benedizione del popolo per la terza volta dopo dieci anni risolleva il nostro morale, ci dà nuova forza. I nostri avversari, nonostante fossero uniti, non sono nemmeno riusciti a conquistare tanti seggi quanti ne ha ottenuto il Bjp», ha sottolineato Modi dopo l’annuncio del risultato. Ma per la prima volta, il leader della destra nazionalista dovrà mediare con altre forze politiche.
Un esito inatteso, che potrebbe rimettere in discussione la traiettoria della più grande democrazia al mondo. È il verdetto di testate internazionali come The Economist, che ha dedicato la copertina al «Trionfo della democrazia» in India. Secondo il settimanale britannico, nonostante il tonfo con cui i mercati hanno accolto il risultato delle elezioni, quest’ultimo «promette di cambiare l’India in meglio» e «riduce il rischio che il Paese scivoli verso l’autocrazia». Anche parte della stampa locale ha celebrato il risultato. «Il bulldozer ora ha i freni», ha scritto il quotidiano indiano Deccan Chronicle. «E quando a un bulldozer vengono messi i freni, diventa semplicemente un tosaerba».
Un successo per l’opposizione, che per fermare Modi ha dato vita a un’alleanza composta da ben 26 partiti. A guidarla è l’Indian National Congress (Inc), per decenni dominatore assoluto della politica indiana.
«Questo Paese ha detto chiaramente a Narendra Modi che non lo vogliamo», ha spiegato il pronipote di Nehru, Rahul Gandhi, diventato il volto della campagna elettorale dell’opposizione guidata dall’Inc. Dopo le nette sconfitte delle ultime tornate, il Congress ha scelto di partecipare alla coalizione “India”, acronimo di Indian National Developmental Inclusive Alliance, che è riuscita a fermare la corsa di Modi.
Il voto, iniziato il 19 aprile, è durato sei settimane e ha finito per coinvolgere 642 milioni di persone. È stata la più grande elezione di sempre, oltre che la più seguita degli ultimi anni. Segno del crescente peso geopolitico di Nuova Delhi, che gli Stati Uniti e i Paesi alleati considerano un contrappeso a Pechino. La crescente frattura tra Pechino e le capitali occidentali ha infatti reso la democrazia indiana sempre più centrale per gli equilibri nella regione. Nel 2022 ha superato il Regno Unito al quinto posto tra le economie mondiali. L’anno successivo ha superato la Cina come Paese più popoloso al mondo, con 1,4 miliardi di abitanti.
Deriva autoritaria
A questo aumento dell’attenzione sull’India, si sono accompagnati gli allarmi per l’apparente deriva autoritaria degli ultimi governi. Prima ancora dei successi di Donald Trump e della destra sovranista in Europa, Modi ha promosso incessantemente un nazionalismo che mettesse al centro l’identità indù.
L’ascesa di Modi, salito al potere cavalcando l’indignazione contro il sistema di potere che per decenni ha governato il Paese, è coincisa con quella del Bjp, una volta ai margini della politica indiana. Ora è considerato il più grande partito del mondo, con 180 milioni di membri, il doppio del Partito comunista cinese. Oltre a un patrimonio multimiliardario può anche contare sull’appoggio di un corpo paramilitare, la Rashtriya Swayamsevak Sangh, letteralmente: “Organizzazione Volontaria Nazionale”, nata nel 1925 sul modello dei balilla fascisti e che oggi conta 5 milioni di volontari.
Come scrive il britannico The New Statesman, il confine tra Stato, partito e società civile è sempre più sfumato come dimostrano casi come gli attacchi contro le coppie interreligiose e quelli contro i musulmani che mangiano carne bovina. Anche fenomeni come i linciaggi contro le persone di fede islamica e i dalit, i fuori-casta, sono diventati sempre più comuni.
Nei dieci anni in cui è stato al potere l’opposizione ha accusato Modi di aver favorito la repressione del dissenso, usando leggi contro il terrorismo per arrestare giornalisti, mentre il Paese perdeva quota nelle classifiche globali sulla democrazia e la libertà di stampa.
Una delle voci critiche è quella di Mahua Moitra, espulsa dal Parlamento dopo quella che ha definito una «caccia alle streghe» per aver posto domande sui rapporti tra Modi e il miliardario Gautam Adani. Definito il «Rockefeller di Modi», è uno degli industriali più legati alla destra al governo a Nuova Delhi e, secondo Forbes e Bloomberg, anche uno dei venti uomini più ricchi del pianeta. Dopo le elezioni, i titoli delle sue società sono crollati perdendo in un solo giorno un valore equivalente a 42 miliardi di euro.
Prima di Moitra, ha ricordato il britannico The Guardian, anche Rahul Gandhi aveva posto interrogativi sui rapporti tra Modi e Adani. Aveva poi ricevuto una condanna per diffamazione, considerata dall’opposizione «politicamente motivata» ed era stato espulso anche lui dal Parlamento. Gandhi però è tornato poi in aula dopo che ad agosto la sua condanna è stata ribaltata dalla Corte suprema.
A fine 2023 più di 140 parlamentari sono stati sospesi dopo aver richiesto un dibattito su un episodio avvenuto nel dicembre scorso, quando due uomini si sono introdotti in aula lanciando gas lacrimogeni. «Un’epurazione», l’ha definita un parlamentare del Congress, Jairam Ramesh, «per fare in modo che vengano approvate leggi draconiane senza alcun dibattito significativo».
Promesse infrante
Ma in campagna elettorale il Bjp ha incentrato il proprio messaggio sulla figura del primo ministro e sulla visione di una nuova India. Il premier ha si è giocato la carta dei traguardi raggiunti dai suoi governi: dagli investimenti in infrastrutture al rilancio dell’economia indiana a livello globale. Poi, man mano che la campagna è andata avanti, i toni si sono fatti sempre più aspri. Modi ha detto che il Congress vuole redistribuire la ricchezza della popolazione indù tra i membri della minoranza musulmana, accusati di essere «infiltrati» e «quelli che hanno più figli». Il Bjp è stato anche accusato di aver impedito a esponenti dell’opposizione di candidarsi e di voler ostacolare il voto dei musulmani, in un Paese che ospita 205 milioni di persone che seguono la fede di Maometto, la seconda popolazione islamica al mondo.
Tra le accuse rivolte da Modi all’opposizione, c’è anche quella di voler demolire un controverso tempio costruito nella città di Ayodhya. Il sito, dedicato alla divinità Rama, era stato inaugurato lo scorso gennaio da Modi stesso, con una cerimonia che ha ricevuto enorme risalto mediatico. È stato costruito sullo stesso luogo in cui sorgeva la Babri Masjid, una moschea edificata nel 1528 sotto l’impero Moghul e abbattuta da nazionalisti indù durante i disordini del 1992.
La stampa ha definito l’inaugurazione un momento «civilizzatore» che, secondo alcuni commentatori, avrebbe presagito l’arrivo di una «seconda repubblica». I risultati hanno invece spento gli entusiasmi del Partito popolare indiano (Bjp), che ha anche perso le elezioni nella stessa Ayodhya.
Molti osservatori hanno sottolineato come le perdite più consistenti per il Bjp si siano registrate nelle regioni rurali e nelle aree più povere. I dalit, in passato noti come “intoccabili”, hanno abbandonato Modi in massa. Anche gli agricoltori, considerati un blocco fedele alla destra nazionalista, hanno voltato le spalle al partito del premier, contribuendo al crollo registrato nelle aree rurali.
La prima volta che Modi vinse le elezioni, nel 2014, aveva promesso una riforma del settore agricolo e di raddoppiare i redditi degli agricoltori che, secondo i dati governativi del 2022, sopravvivono con un reddito giornaliero di appena 28 rupie (0,31 euro).
Nel 2020, all’inizio del suo secondo mandato, il governo di Modi ha approvato tre leggi per regolamentare il settore senza però consultare le associazioni di categoria. L’esecutivo ha poi ritirato le norme ma solo dopo aver contrastato duramente le proteste. Durante la campagna elettorale, in stati come il Punjab e lo Haryana, hanno inscenato proteste contro i candidati della maggioranza. Alcuni villaggi hanno addirittura vietato loro l’ingresso.
Per le fasce più povere invece il timore era che, con una maggioranza ancora più schiacciante del Bjp e dei suoi alleati, la destra nazionalista avrebbe eliminato sia le misure a sostegno delle minoranze che quelle a vantaggio degli indù appartenenti alle caste inferiori. Modi ha smentito di aver preso in considerazione queste riforme, ma il suo partito si è opposto alle richieste di un allargamento delle misure di sostegno all’occupazione per le fasce più povere e di un censimento sugli appartenenti alle caste.
Seconda repubblica rimandata
L’opposizione è riuscita a capitalizzare su questi malumori ponendo l’accento sui temi economici, dall’aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze al pericolo di una stretta sul sistema di aiuti per i ceti più poveri.
Grazie all’organizzazione e alla divisione strategica dei candidati, la coalizione India (acronimo di Indian National Developmental Inclusive Alliance) è riuscita a massimizzare il numero di seggi vinti. Il Congress, principale partito della coalizione, ha potuto così a passare dai 55 seggi del 2019 ai 99 di questa tornata, pur scegliendo di correre in meno collegi. Un aumento di quasi l’80 per cento, a fronte di un incremento esiguo dei consensi. A livello nazionale la quota del Congress è infatti passata dal 19,4 al 21 per cento.
Il Bjp di Modi continua a essere di gran lunga il partito più popolare, con il doppio dei consensi del Congress, la formazione storica dell’indipendenza dall’impero britannico. Nonostante il flop elettorale, anche il risultato del Bjp non si è discostato molto da quello del 2019. Il dato per il Bjp è sceso dal 37,3 per cento del 2019 al 36,5 per cento. Una variazione di meno di un punto percentuale, sufficiente però a passare dal 56 al 44 per cento dei seggi.
Il risultato deludente, costato al partito la maggioranza, è dovuto soprattutto ai risultati nelle roccaforti del nord, dove il Bjp ha ottenuto 55 seggi in meno rispetto al 2019. Nel più ricco sud invece il Partito del popolo indiano è riuscito ad allargare il proprio consenso. Gli sforzi per rendere il Bjp un partito nazionale e aumentare il richiamo anche negli stati più ricchi del Paese hanno prodotto qualche risultato, portando il Bjp dal 18 al 24 per cento. Ma il sistema uninominale indiano ha impedito di tradurre questo aumento di consensi in seggi.
Il risultato, come detto, è stato deludente nelle aree rurali. Qui il partito ha conquistato solo il 44 per cento dei seggi rispetto al 58 per cento del 2019. Un crollo particolarmente pronunciato nelle aree con un numero elevato di appartenenti alle caste di livello più basso.
Il caso più significativo è quello dello stato settentrionale dell’Uttar Pradesh, il più popoloso del Paese. Nel 2019 il Bjp era riuscito a incassare 62 degli 80 seggi a disposizione conquistando il 50 per cento dei voti. Questa volta ha ottenuto 33 seggi con il 41 per cento dei consensi. Il crollo non ha impedito a Modi di imporsi per la terza volta consecutiva nel suo collegio nella città santa (per gli indù) di Varanasi. Anche qui però le aspettative sono state disattese. Invece che battere tutti i record, come era stato promesso durante la campagna elettorale, il primo ministro ha visto il proprio margine assottigliarsi, passando dal mezzo milione di voti del 2019 ad appena 150mila. Sufficienti però per cambiare la storia della più grande democrazia del mondo. Chissà per quanto ancora.