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Grande Risiko Mediorientale: la guerra scatenata da Israele a Gaza si è già allargata a tutta la regione

La guerra tra Israele e Hamas iniziata dopo i drammatici attacchi del 7 ottobre compiuti dal gruppo terrorista con base a Gaza non costituisce solo un conflitto tra due parti in causa e non è nemmeno una semplice fase delle ostilità israelo-palestinesi in corso da decenni. Le uccisioni nei kibbutz e nel rave party di Re’im, i rapimenti indiscriminati, la risposta israeliana con incessanti bombardamenti e con l’inizio di un’operazione via terra sono stati la scintilla, o forse più correttamente la fiammata, vista la portata degli eventi, che ha innescato un incendio ancora più ampio nel perennemente travagliato Medio Oriente, ancora più travagliato in un momento storico in cui gli equilibri mondiali sono più fragili che mai.

In un mondo in cui dopo la fine della Guerra fredda non sembra essersi mai consolidato un nuovo ordine, la spallata della Russia in Ucraina ha aperto un vaso di Pandora che ha favorito l’insicurezza nel mondo, e in un Medio Oriente in cui da un lato si cercavano forme di distensione come gli Accordi di Abramo, dall’altro aumentavano gli scontri regionali anche a livelli inattesi. Come nei primi giorni del 2020, quando nel pieno delle tensioni nel Golfo Persico, con un raid statunitense venivano uccisi a Baghdad il comandante della forza d’élite Quds dei Guardiani della rivoluzione iraniana, Qassem Soleimani, e il capo delle Forze di Mobilitazione Popolare, gruppo paramilitare sciita sostenuto dall’Iran, Abu Mahdi al-Muhandis.

In questo fragile contesto, l’attacco di Hamas nel sud di Israele, la più grave azione mai compiuta dal gruppo terrorista, non poteva certo rimanere un fatto circoscritto. A partire dalla reazione israeliana contro la Striscia di Gaza, che ha attirato non poche critiche da ampi settori dell’opinione pubblica e da numerosi governi, che l’hanno considerata spropositata e hanno puntato il dito sulle migliaia di civili morti nelle operazioni, molti dei quali bambini. Critiche dure tra cui spicca quella del Sudafrica che ha formalmente accusato Israele di genocidio presso la Corte internazionale di giustizia, portando all’inizio di un procedimento al riguardo all’Aja. Ma il fronte giudiziario è solo un altro di quelli aperti in questo conflitto.

Perché oltre ai combattimenti a Gaza, sono esplose nuove tensioni in Cisgiordania, il confine tra Israele e Libano è più teso che mai, la Siria e l’Iraq continuano ad essere teatro di attacchi mirati contro diversi obiettivi, l’Isis è tornata a colpire con un attacco di ampia portata in suolo iraniano, e l’Iran è arrivato a colpire obiettivi in suolo pachistano, un Paese che fino a quel momento aveva un ruolo periferico in questo risiko, portando una potenza nucleare come Islamabad a rispondere colpendo un gruppo separatista con base in Iran. E in tutto questo preoccupa soprattutto il Mar Rosso, dove le milizie yemenite Houthi sostenute da Teheran hanno iniziato una campagna di attacchi alle navi commerciali che transitano in uno dei punti più caldi della logistica mondiale: azioni che hanno portato Stati Uniti e Regno Unito a una risposta militare.

Il bivio di Hezbollah
Subito dopo il 7 ottobre, il primo punto caldo cui il mondo ha guardato è stato il confine tra Israele e Libano, la zona in cui è particolarmente attivo Hezbollah, il gruppo paramilitare sciita legato all’Iran e alleato di Hamas che periodicamente si scontra con scambi di razzi e altre azioni a bassa intensità con le truppe israeliane al confine.

Già dall’8 ottobre, l’intensità degli scambi di fuoco è aumentata notevolmente, lasciando temere che potesse trasformarsi in una vera e propria guerra: un’ipotesi che non è stata esclusa da nessuna delle parti in causa. Hassan Nasrallah, leader del gruppo paramilitare, ha tenuto diversi discorsi dall’inizio del conflitto, e pur non annunciando operazioni su larga scala come qualche osservatore aveva temuto, ha enfatizzato come la quantità di azioni compiute da Hezbollah contro Israele sia a un livello più alto che mai. Dal canto suo, Israele ha fatto sapere per bocca del ministro della Difesa Yoav Gallant di essere pronta, se necessario, a compiere tutte le azioni possibili per far indietreggiare Hezbollah a nord del fiume Litani, con un margine di sicurezza dal confine.

Hezbollah, tuttavia, si trova di fronte a un bivio: mantenere prudenza e limitare lo scontro o lanciare un attacco su vasta scala contro Israele? Un gesto, quest’ultimo, che potrebbe costare numerose vittime ma anche dare allo Stato ebraico l’occasione per organizzare una risposta particolarmente dura, come sta avvenendo contro Hamas a Gaza. La prudenza, tuttavia, potrebbe essere vista dai sostenitori del gruppo come una mancanza di solidarietà nei confronti della causa palestinese e di Hamas: qualcosa che potrebbe non essere gradito in un gruppo che ha fatto dello scontro con Israele una ragione quasi esistenziale. Uno scontro continuo e un’intensità più alta del solito rappresenta dunque una posizione intermedia tra queste due possibilità, che tuttavia in questo momento storico rischia con facilità di portare lo scontro a un livello particolarmente pericoloso.

Il momento in cui la sfida tra Israele ed Hezbollah si è fatta più calda, tuttavia, è stato quando lo Stato ebraico ha lanciato un raid con un drone nel quartiere di Dahiyeh, a Beirut, roccaforte del gruppo sciita, uccidendo Saleh al-Arouri, uno dei massimi dirigenti di Hamas, e altre sei persone. Un gesto che ha portato Nasrallah a intervenire pubblicamente annunciando che l’attacco non sarebbe rimasto impunito e senza risposta.

Il fronte del Mar Rosso
Uno dei nuovi fronti che si sono aperti dopo il 7 ottobre e che ha maggiormente preoccupato la comunità internazionale è quello del Mar Rosso, dove gli Houthi, gruppo paramilitare sciita legato all’Iran che controlla il nord dello Yemen e da anni si scontra con il vecchio governo legato al sud sunnita del Paese in una sanguinosa guerra civile. Un conflitto che da anni ha diminuito l’intensità e sembrava volgere verso la pace dopo numerosi colloqui ma che a questo punto potrebbe prendere strade pericolose.

Già lo scorso ottobre gli Houthi, che in passato sono stati ritenuti responsabili di attacchi missilistici contro obiettivi legati alla produzione petrolifera saudita, hanno lanciato alcuni razzi diretti verso Israele, che sono stati abbattuti. Dal mese di novembre, tuttavia, il gruppo ha messo in campo una nuova strategia, iniziando a bersagliare in diversi modi le navi commerciali che transitano per il Mar Rosso, proprio di fronte alla costa yemenita e all’importante porto di Hodeidah sotto il loro controllo.

Così, il 19 novembre gli Houthi hanno preso d’assalto e dirottato la nave Galaxy Leader battente bandiera delle Bahamas e, in parte, di proprietà israeliana, episodio cui sono seguiti attacchi con droni e missili anti-nave e altri tentativi di assalto contro imbarcazioni commerciali battenti le più disparate bandiere, allertando governi e armatori in tutto il mondo per le conseguenze sul commercio e portando molte navi ad abbandonare il passaggio dal canale di Suez, preferendo la ben più lunga circumnavigazione dell’Africa, che alla lunga può innescare un’altra crisi economica alimentata dal rialzo dell’inflazione.

Di fronte a questa minaccia, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno prima costituito una coalizione di Paesi, l’operazione “Prosperity Guardian”, per dare una risposta e proteggere il passaggio delle navi commerciali, e a partire dal 12 gennaio hanno compiuto una serie di attacchi contro obiettivi Houthi nello Yemen, mentre l’Unione europea valuta l’invio di una propria missione nella regione. Un altro episodio che mostra come sia in corso un conflitto ben più largo di quanto si possa pensare.

Un passaggio strategico
Il Mar Rosso, da quando nel 1869 venne aperto il canale di Suez, rappresenta un luogo chiave del traffico marittimo globale. Nello specifico, un punto particolarmente caldo è rappresentato dall’accesso meridionale a questo mare, lo stretto di Bab el-Mandeb, un luogo che può sembrarci remoto ma che pur distante migliaia di chilometri dall’Italia riguarda direttamente anche il nostro Paese, il Mediterraneo e non solo.

La costruzione del Canale, infatti, permise alle navi commerciali provenienti dai porti dell’Asia meridionale e orientale di evitare di dover circumnavigare l’Africa per raggiungere i principali approdi del Mediterraneo e del nord Europa, risparmiando circa un mese di viaggio per le imbarcazioni dell’epoca. Un fatto che permise di dare una nuova centralità a quello che i romani chiamavano “Mare Nostrum” e che in seguito alla scoperta dell’America e al successivo mutamento degli equilibri globali si era allontanato dal centro della scena commerciale globale. Il blocco e i rallentamenti in questa rotta strategica riguardano dunque da vicino anche l’Europa e il Mediterraneo.

Proprio questo ruolo strategico del Mar Rosso è stato alla base di due importanti conflitti dal dopoguerra a oggi, come la crisi di Suez, determinata dall’occupazione militare del canale da parte di Regno Unito, Francia e Israele, e la guerra dei Sei Giorni, iniziata dopo che l’Egitto bloccò lo stretto di Tiran, negando di fatto a Israele l’accesso al Mar Rosso.

La partita dell’Ayatollah
In seguito agli attacchi del 7 ottobre, dal mondo sono arrivate reazioni con diverse sfumature. Da chi ha fornito a Israele la massima solidarietà, a chi ha invece individuato nelle politiche dello Stato ebraico la causa di una reazione così violenta. Pochissimi, però, hanno manifestato un pubblico sostegno a Hamas, e tra questi c’è l’Iran, un Paese che non ha mai nascosto il proprio appoggio al gruppo, tanto che non sono mancati gli osservatori convinti che Teheran potesse aver fornito supporto materiale, o addirittura essere la mente, di un attacco su vasta scala come quello del 7 ottobre. Accuse che Teheran ha sempre negato.

Se l’Iran ha manifestato il proprio sostegno ad Hamas è anche per via della guerra per procura che da anni vede il Paese contrapposto a Israele in vari angoli del Medio Oriente dove Teheran agisce attraverso la fitta rete di gruppi che sostiene, mentre Israele non esita a rispondere con operazioni fuori dai propri confini, e quello che stiamo vedendo oggi in quella parte di mondo è anche parte dello scontro per procura tra l’Iran da un lato e dall’altro non solo lo Stato ebraico ma anche altri due storici rivali di Teheran, come gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita.

Se oltre a Hamas possono essere considerati strettamente legati all’Iran anche Hezbollah e gli Houthi, l’espansione dello scontro ha toccato anche altri pezzi di Medio Oriente. La Siria, ad esempio, stretto alleato di Teheran in cui ancora oggi operano gruppi diversi e in contrapposizione tra di loro sulla scia della guerra civile in corso da oltre 10 anni e divenuta ormai un conflitto molto meno intenso. Sul suolo siriano si è assistito ad attacchi contro le basi statunitensi, a raid israeliani e statunitensi contro obiettivi legati all’Iran. Situazione simile in Iraq che più volte è stato, suo malgrado, teatro di scontri tra altre potenze e gruppi. E non sono mancate nuove operazioni della Turchia contro le basi curde nel nord dei due Paesi.

In questo delicato contesto, il 3 gennaio l’Isis ha compiuto un grave attentato nella città iraniana di Kerman dove si commemorava il generale Soleimani, uccidendo almeno 94 persone e infiammando la tensione ulteriormente. Il 15 gennaio Teheran ha voluto rispondere più o meno direttamente a molti nemici della regione, colpendo obiettivi dell’Isis in Siria, un presunto centro di comando dello spionaggio israeliano a Erbil, nel Kurdistan iracheno, e una base dei separatisti del Balochistan in Pakistan. Se Siria e Iraq sono stati molte volte teatro di attacchi nell’ambito del più ampio risiko mediorientale, diversa è la situazione del Pakistan che sembrava trovarsi in un luogo periferico dello scacchiere e vi si è invece trovato coinvolto, nell’ennesimo getto di benzina su un fuoco che non sembra destinato a spegnersi.

La risposta pachistana, arrivata sotto forma di un raid contro un altro gruppo separatista del Balochistan ma con sede in Iran, è stato uno degli ultimi episodi di una crisi che ci fa capire prima di tutto una cosa: la guerra iniziata dopo il 7 ottobre non si combatte solo nella Striscia di Gaza e non riguarda solamente Israele e Hamas.

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