Il lavoro manifesta tendenze contraddittorie, estreme, grottesche. C’è chi lavora tanto, troppo, da non avere tempo per sé stesso, la famiglia, le vacanze, le cure. C’è chi è pagato per non far niente. E molti rinunciano alle ferie per non perdere il posto. Altri l’occupazione la stanno perdendo e saranno sostituti non da umani, ma da macchine intelligenti. Chi controlla la tecnologia e i capitali comanda.
La politica, almeno in casa nostra, latita, priva di idee e di competenze, non incide sui cambiamenti. Il lavoro non è più il valore fondativo della nostra vita, delle nostre democrazie. Conta poco nel dibattito pubblico, richiama un marginale interesse politico e sociologico.
Si muore di sfruttamento e di violazione delle leggi, ma non cambia nulla. Nessuno fa più inchieste operaie, eppure siamo la seconda manifattura in Europa dopo la Germania.
Il cinema apre uno spiraglio doloroso. Il metalmeccanico Antonio Riva (Antonio Albanese) nel film “Cento domeniche” cura la famiglia, lavora con lealtà e, dopo 43 anni in fabbrica, perde tutti i risparmi perché tradito dalla banca di cui si fidava perché nelle piccole comunità ci si conosce tutti e basta la parola.
La sconfitta e la solitudine dell’operaio Riva sono le stesse di milioni di lavoratori. Non più classe, non più partito, niente lotte. A qualcuno resta la squadra di bocce.
«Qui uno che lavora al tornio senza la biro è un pirla!», gridava Enzo Jannacci nella sua memorabile “El me indiriss”, in cui il proletario viene vessato anche in fila all’anagrafe. Oggi Hollywood propone il lavoro nella sua dimensione problematica: le crisi industriali, i ricatti sociali, le frustrazioni umane.
Le università studiano le serie in streaming, come “The Office” e “The Bear”, perché possono aiutare a individuare le patologie che affliggono il lavoro. La domanda è: sopravviverà il lavoro all’innovazione, come è accaduto in altre epoche?
“After work” è un docufilm di Erik Gandini che si interroga su come vivremo se finisce il lavoro. Il 55% dei lavoratori americani nel 2018 non ha consumato una gran mole di ferie pagate, circa 768 milioni di giorni di vacanza pari a 65 miliardi di dollari di mancati benefici.
Nella Corea del Sud, potenza economica, il Ministero del Lavoro ha lanciato una campagna per convincere le persone a tagliare il tempo di impiego. Una giornata di lavoro di 14 ore è comune. Risultati: un’epidemia di tumori allo stomaco e un’impennata di suicidi.
Lo stakanovismo alla coreana causa la rottura delle famiglie e la proliferazione di malattie nervose. Per costringere i dipendenti a tornarsene a casa le imprese usano un sistema automatico di spegnimento dei computer alle18.
Poi si volta pagina. Il Kuwait, emirato ricchissimo che prospera sui proventi del petrolio, ha una politica di piena occupazione. Molti impiegati dei servizi non fanno niente. Scrivania e computer, ma senza mansioni, nessun “target”. Però con una vera retribuzione.
Un vitalizio per molti forse ci vorrà se l’Intelligenza Artificiale farà quello che sa fare. Negli Stati Uniti si prevede che, in un decennio, il 47% dei lavoratori sarà sostituito da tecnologie più efficienti e rapide, il cui costo andrà a scomparire. Gli addetti al telemarketing verranno rimpiazzati da chatbot. I cassieri saranno sostituiti da sistemi automatici di pagamento. A rischio gli autisti, i tassisti, se davvero la mobilità sarà automatizzata come sta provando San Francisco.
E in Italia cosa diciamo ai 2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, o ai 7 milioni di donne già oggi escluse dal mercato del lavoro? Tranquilli, vi diamo un vitalizio?
Dovremmo, dunque, scordarci quel sentimento di abnegazione cresciuto negli ultimi due secoli e attendere sereni la mancia a fine mese. Ma si può condividere che la vita cessi di assumere valore in relazione a ciò che produciamo?
Papa Francesco disse agli operai dell’Ilva di Genova: «Non abbiamo bisogno di un assegno a fine mese, ma di un lavoro perché solo il lavoro garantisce la dignità dell’uomo». Ma Francesco è di una vecchia scuola, non più di moda.