C’è anche un po’ di Italia al fronte tra Israele e Hamas. Il nostro Paese commercia da anni con lo Stato ebraico in materiale bellico, anche se nell’ultimo decennio si è registrata una decisa accelerazione degli affari, a tutto vantaggio delle imprese coinvolte e a carico del bilancio pubblico italiano.
Ormai le commesse viaggiano spesso in parallelo, con volumi simili di esportazioni e importazioni, ma, alla fine, dal 2013 l’Italia risulta aver comprato più di quanto abbia venduto a Israele, foraggiandone le aziende, tanto a pagare sono i cittadini.
La lista della spesa
Ma non è stato sempre così. Per anni, l’Italia ha rispettato le due risoluzioni approvate nel 1975 e nel 1982 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che richiedono a tutti gli Stati «di desistere dal fornire a Israele qualsiasi aiuto militare o economico fintantoché continuerà ad occupare i territori arabi e a negare i diritti nazionali inalienabili del popolo palestinese» e «ad astenersi dal fornire armi e relative attrezzature e a sospendere qualsiasi assistenza militare» allo Stato ebraico.
In particolare, in ossequio alla legge n. 185/90, a partire dal 1990 fino al 2011 il commercio di materiale bellico tra il nostro Paese e Israele si limitava a una media di poche decina di migliaia di euro all’anno.
Il salto di qualità però arrivò con il secondo governo Berlusconi. Proprio il patron di Fininvest, scomparso quest’anno, firmò nel 2003 a Parigi il “Memorandum d’intesa in materia di cooperazione nel settore militare e della difesa” tra Italia e Israele, poi ratificato dalle Camere nel 2005. E subito si cominciò a trattare.
Il principale prodotto italiano che interessava allora agli israeliani era l’aereo da addestramento militare M-346 della Alenia Aermacchi dell’allora Finmeccanica, oggi Leonardo. Un velivolo apprezzato anche dall’allora presidente del Consiglio che, alla presentazione nel 2004 a Venegono Superiore in provincia di Varese, si rivolse così ai dirigenti del gruppo: «Sarò il vostro commesso viaggiatore». L’affare però non andò in porto subito, ma se ne riparlò con il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi tra il 2008 e il 2011, quando furono poste le basi per concludere l’accordo. Un’intesa che poi fu benedetta dal suo successore Mario Monti nel 2012, quando l’allora premier si recò in visita in Israele. La commessa era enorme: il valore totale dell’accordo si aggirava intorno ai due miliardi di dollari e prevedeva per la prima volta una sorta di reciprocità. Israele si impegnò ad acquistare 30 velivoli M-346 dalla Alenia Aermacchi per circa 600 milioni di dollari, mentre l’Italia promise 750 milioni di dollari alle Israel Aerospace Industries (IAI) per due aerei Gulfstream G550 e 182 milioni milioni di dollari per un satellite spia.
Al di là dei numeri, l’affare è stato importante anche per migliorare le capacità di difesa di Israele, dove lo M-346 “Lavi” ha ormai superato le 50mila ore di volo. Il velivolo infatti, i cui trenta esemplari sono stati tutti consegnati all’aeronautica dello Stato ebraico tra il 2012 e il 2016, presenta un avanzato sistema avionico che consente ai piloti tirocinanti di imparare virtualmente a controllare radar, sensori ottici e sistemi di guerra elettronica, oltre ad armi terra-aria e aria-aria. «La transizione dallo M-346 a un vero caccia è molto semplice perché è molto simile ai jet da combattimento. Impari a combattere e poi passi alla realtà sul campo. Non è necessario addestrarsi di nuovo con il vero caccia, quindi si risparmiano un sacco di ore di volo», spiega il generale dell’aviazione israeliana, Avi Maor, in una brochure dell’americana Honeywell, che fornisce i motori dell’aereo.
Ma, come specifica Leonardo, lo M-346 è disponibile anche in una variante multiruolo Fighter Attack «per consentire operazioni di combattimento economicamente vantaggiose» e condurre «missioni di supporto aereo ravvicinato, anche in aree urbane». L’Italia non ha venduto a Israele questa versione, il cui battesimo del volo è avvenuto solo nel 2020, tuttavia a metà ottobre la squadriglia di trenta M-346 in servizio presso l’aeronautica israeliana è stata vista volare durante le operazioni di difesa dai lanci di razzi da parte di Hamas dalla striscia di Gaza, a supporto delle attività militari dello Stato ebraico.
Questo però non è stato l’unico grosso affare militare concluso tra Roma e Tel Aviv. Nel febbraio del 2019 infatti, durante il primo governo Conte, i due ministeri della Difesa firmarono un altro accordo per la vendita di sette elicotteri da addestramento avanzato 119KX della Agusta Westland, sempre del gruppo Leonardo, a Israele. Un affare che quell’anno fece salire ai massimi l’interscambio bilaterale nel settore.
Tuttavia non finì lì perché nemmeno la pandemia scoppiata l’anno seguente fermò gli scambi. Nel settembre 2020, con il secondo governo Conte, lo Stato ebraico acquistò altri cinque elicotteri AW119KX e due simulatori per la scuola di volo dell’Israeli Air Force. Nello stesso momento però, grazie a una partnership tra Leonardo e l’israeliana Elbit Systems, l’Italia acquistò lanciatori e missili anticarro Spike dal gruppo Rafael. Alla fine, il valore totale di questi accordi arrivò ad aggirarsi intorno ai 350 milioni di dollari. Ma la lista dei materiali bellici scambiati negli ultimi dieci anni tra Roma e Tel Aviv è molto più lunga, anche se meno dettagliata.
Numeri da capogiro
Le relazioni “sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” presentate ogni anno in Parlamento aiutano infatti a chiarire i numeri dell’interscambio e indicano le categorie a cui appartengono i prodotti esportati ma non permettono di identificare con esattezza cosa sia stato venduto a chi.
Le cifre però sono rilevanti: tra il 2013 e il 2012, le nostre aziende hanno esportato oltre 116 milioni di euro di armamenti e altro materiale ad uso bellico in Israele. Le categorie in cui ricadono i prodotti venduti comprendono, tra gli altri: armi automatiche e di grosso calibro; munizioni; aeromobili; bombe, siluri, razzi, missili; navi da guerra; software; apparecchiature elettroniche, per la direzione del tiro, l’addestramento o la simulazione di scenari militari; e veicoli terrestri.
Come detto, non conosciamo esattamente i modelli esportati ma sappiamo che le vendite sono cresciute negli ultimi dieci anni, raggiungendo il picco nel 2019 e nel 2020, quando per ben due volte le autorizzazioni superarono un controvalore di 20 milioni di euro all’anno. L’export militare dell’Italia verso Israele ammontava a 2,3 milioni nel 2013, scendendo a 366 mila euro l’anno successivo, per poi salire a 5,5 milioni nel 2015, 8,6 nel 2016 e 9,1 nel 2017. Nel 2018 poi, l’export arrivò alla cifra (fino ad allora) record di 18,4 milioni, superata dai 28,74 milioni dell’anno successivo. Quindi, dal 2020, le vendite di armi italiane a Israele hanno cominciato a calare, scendendo quell’anno a 21,399 milioni, a 12,48 nel 2021 e a 9,282 l’anno scorso.
Tra le aziende coinvolte a fare la parte del leone è, ovviamente, il gruppo Leonardo, controllato dal ministero dell’Economia, ma nella lista degli esportatori autorizzati figura anche l’Agenzia industrie difesa, controllata invece dal ministero della Difesa. Tra le altre imprese della lista però ci sono anche realtà importanti come Ase Aerospace, Cabi Cattaneo, Fimac, Forgital, Leat, Mecaer, Mes, Oma Officine, Sicamb e Teckne.
Il commercio di armi tra Italia e Israele, come abbiamo visto, non è comunque a senso unico. Negli ultimi dieci anni infatti, secondo Pagella Politica, il nostro Paese ha acquistato oltre 226 milioni di euro di prodotti per la difesa da aziende israeliane, con picchi di 40 milioni nel 2013, 55,7 nel 2017 e 52,9 nel 2020. Un trend altalenante che però nell’ultimo biennio sembra essersi stabilizzato: l’anno scorso infatti l’Italia ha importato 9,8 milioni di euro di armamenti da Israele a fronte di 9,282 milioni di esportazioni nello stesso settore, mentre nel 2021 l’import era pari a 12,5 milioni a fronte di un export di 12,48. Insomma, sembra essersi imposta una sorta di clausola di reciprocità, che va a tutto vantaggio delle aziende coinvolte e non certo dei cittadini perché alla fine a pagare è sempre lo Stato.