Tre milioni e mezzo di esseri umani in vent’anni. È il numero di morti provocati dai 170 conflitti che sono in corso nel mondo, dalle guerre tribali a quelle fra Stati, conteggiati dall’Ucdp, il programma di ricerca sulle guerre nel mondo dell’Università svedese di Uppsala.
Un dato inquietante che fa sorgere molti interrogativi sul conflitto in corso tra Israele e resto del mondo. Soprattutto se lo si unisce a uno sguardo sui 2.400 morti nel terremoto di qualche giorno fa a Herat, in Afghanistan. Una catastrofe di cui nessun organo di stampa, se non trascurabilmente, si è occupato. Un po’ come la guerra di Ucraina, che prosegue seminando morte, distruzione e sfacelo, ma che oramai è scomparsa dalle cronache dei giornali.
Eppure, secondo le Nazioni Unite, in quelle pianure fangose sono morti oltre 7.000 civili, 12.000 sono stati feriti e 8 milioni di persone hanno lasciato il loro Paese alla ricerca di sicurezza.
Altri 13 milioni non hanno acqua né accesso a medici o ospedali. A cui aggiungere le tragedie senza fine e senza senso del Myanmar, dove 4 milioni di bambini non possono andare a scuola da più di due anni, mentre 18 milioni di essere umani necessitano di assistenza ad ogni livello. O Haiti, dove 20.000 persone muoiono, letteralmente, di fame e di colera perché bande di predoni hanno messo sotto scacco il Paese per poter avere accesso alle riserve petrolifere.
Nessuno si preoccupa più dei milioni di sfollati della Siria, che da più di dieci anni è sventrata da una guerra “civile” e occupata dagli eserciti del mondo degli squali.
Un capitolo a sé è l’Africa. Dal Congo al Sahel, dal Corno d’Africa alla Nigeria, scorrono fiumi di sangue umano. In Etiopia, solo nel 2022, sono morti 600mila civili per una guerra civile. E poi c’è lo Yemen, dove gli Huthi affilano le armi.
Vale la regola dell’ultima tragedia: la nostra attenzione, compassione o indignazione sono solo per il conflitto appena avvenuto, per la più recente alluvione, per la più vicina disgrazia. Le altre, in una distorsione della percezione che meriterebbe di essere studiata, non contano più.
Eppure, per quanto paradossale possa sembrare, il pianeta è progredito. Negli ultimi 500 anni, il numero di morti per guerre e violenze, è diminuito considerevolmente. Gli omicidi nel nostro medioevo erano di trenta volte superiori a quelli di oggi.
Le guerre, dalla fine dell’ultima follia nel 1945, hanno provocato l’80% di morti in meno: da 500mila persone l’anno a 100mila. È una contabilità macabra e cinica, certo. Ma è il segno che è possibile, non utopico, un mondo senza morti di violenza, o con molti meno, se non altro.
Che sia il momento di riformare le Nazioni Unite e dotarle di regole condivise, di un esercito di peace-keeping e di dire all’informazione globale che i morti sono tutti uguali? Almeno loro.