Con chi abbia trascorso le sue ultime ore Yevgeny Prigozhin prima di salire sull’aereo su cui avrebbe trovato la morte il 23 agosto scorso resta ancora un mistero, ma il capo del gruppo Wagner era arrivato a Mosca da poco. «Per chi si chiede se sia vivo o meno o come sto, oggi è il primo fine settimana della seconda metà di agosto 2023 (19-20 del mese, ndr) e mi trovo in Africa», disse nell’ultimo video circolato sui canali Telegram dei suoi mercenari. «Quindi, agli amanti dei discorsi sulla mia liquidazione fisica, sui miei guadagni o qualsiasi altro argomento che mi riguardi posso dire che, in effetti, va tutto bene». Tre giorni dopo invece sarebbe rimasto ucciso insieme ai suoi vice Dmitry Utkin e Valery Chekalov in un incidente aereo sospetto, probabilmente a causa di un ordigno.
Prigozhin era arrivato in Africa soltanto il 17 o 18 agosto, eppure era tornato subito in patria per opporsi al piano delle forze armate di sostituire i suoi mercenari con una milizia guidata dai servizi militari. Incidente o attentato, l’epilogo di questa storia è solo l’ultimo capitolo di una faida di potere cominciata molti anni prima e culminata nel cosiddetto “ammutinamento” del 24 giugno scorso, che il Cremlino non deve avergli mai davvero perdonato.
Le radici dell’odio
Tutto cominciò nell’estate del 2014. Allora Mosca aveva annesso la Crimea da pochi mesi e sulle rive della Moscova, alcuni funzionari militari furono convocati nella sede del ministero della Difesa per incontrare Yevgeny Prigozhin. Sembrava un appaltatore come tanti, un imprenditore spregiudicato a cui il precedente ministro Anatoly Serdyukov, sostituito due anni prima per uno scandalo dall’ancora in carica Sergej Shoigu, aveva assegnato una serie di contratti. Ma era inviso all’attuale ministro, che nei primi anni del suo mandato avrebbe addirittura ordinato di non farlo entrare nei suoi uffici. Tuttavia era protetto dall’alto.
All’incontro in cui Prigozhin chiese alla Difesa un’assegnazione di terre dove addestrare gruppi di “volontari” armati, questi precisò: «Gli ordini arrivano da Papà», cioè direttamente da Vladimir Putin. Nacque così la compagnia militare privata Wagner Group, il cui battesimo del fuoco non si fece attendere.
La Crimea e il Donbass furono infatti le prime zone di intervento del gruppo tra il 2014 e il 2015, erano gli anni della luna di miele tra Wagner e le forze armate, che ne apprezzarono l’apporto militare. Tutto questo però non bastò a migliorare i rapporti tra Prigozhin e Shoigu, che affidò i contatti con il capo di Wagner al suo vice Timur Ivanov, il quale garantì all’imprenditore nuovi appalti, sufficienti a finanziare le attività dei mercenari. Tuttavia il ministro della Difesa russo continuò a osteggiare Prigozhin preferendo alla sua società Voentorg altri appaltatori, più vicini alla sua cerchia. Lo stesso Shoigu infatti ha una rete di fedelissimi. Come la sua presunta ex amante Elena Shebunova che, proprio in quegli anni, da semplice assistente di volo divenne miliardaria grazie a diversi contratti con il ministero. Ma anche il suo vice Ivanov, sottoposto a sanzioni da Ue e Usa come Shoigu, sarebbe implicato in questo genere di affari, grazie alla sua posizione di responsabile degli appalti e soprattutto della ricostruzione nelle zone occupate. Insomma, la lotta di potere tra Prigozhin da una parte e il ministero della Difesa e i militari russi dall’altra non era solo questione di prestigio sul campo di battaglia ma anche di soldi. Una competizione mortale, come dimostrato qualche anno dopo in Siria.
Eroi
Alla fine del 2015, il gruppo Wagner fu infatti spostato dal teatro ucraino al Paese arabo, dove il Cremlino intervenne a sostegno del dittatore Bashar al-Assad. Qui i mercenari furono impiegati sempre più spesso al fianco o al posto delle forze speciali russe. I risultati erano evidenti: Mosca poteva mantenere la promessa di impegnarsi solo in attacchi aerei mentre gli assalti di terra erano riservati a personale privato, le cui perdite non erano generalmente divulgate.
All’inizio del 2016, queste forze accompagnarono l’avanzata del regime verso i giacimenti di Deir Ezzor e a marzo conquistarono Palmira dall’Isis. Per l’occasione fu organizzato un concerto dell’Orchestra del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, diretta dal maestro Valery Gergiev, a cui non fu invitato nessun rappresentante di Wagner, il cui contributo non fu nemmeno citato nei comunicati ufficiali. Eppure, in quell’operazione morirono almeno una trentina di mercenari. Malgrado questo, l’anno successivo, le aziende di Prigozhin persero una quota significativa di appalti militari. Il ministero della Difesa imputava a Wagner uno scarso impegno in Siria, dove nel 2017 il gruppo registrò minori perdite. La situazione esacerbò ancora di più le tensioni con il ministero, più volte citato in tribunale per mancati o ritardati pagamenti. La soluzione arrivò in un certo senso da Assad. Nel gennaio 2018, la società Evro Polis, collegata a Prigozhin, ottenne la concessione di alcuni giacimenti petroliferi riconquistati all’Isis.
La “vendetta” dei militari però arrivò poco dopo. Il 7 febbraio 2018, quasi 400 mercenari di Wagner parteciparono a un attacco nei pressi del giacimento di gas di Conoco, nel nord-est della Siria, controllato dalle milizie curde appoggiate dagli Stati Uniti. Alla battaglia erano presenti anche unità speciali dei Marines, che assistettero così al più violento scontro tra Usa e Russia dalla guerra del Vietnam. Alla fine, i mercenari russi e i miliziani fedeli al regime furono respinti grazie all’intervento dell’aviazione americana, che uccise tra 80 e 200 combattenti di Prigozhin, il quale attribuì la morte dei suoi a un “tradimento” di Mosca.
Come emerso da un’audizione al Senato dell’allora segretario americano alla Difesa Jim Mattis, Washington chiese ai russi se tra gli attaccanti vi fossero soldati di Mosca. La risposta fu negativa. Tanto bastò agli Usa per massacrare i mercenari, consapevoli del coinvolgimento dei loro vertici militari. Lo stesso capo di Wagner disse di aver cercato di incontrare Shoigu per discutere della faccenda ma che questi si era sempre negato. Alla fine, dopo averlo incrociato a un ricevimento al Cremlino, il ministro avrebbe risposto: «Volevate diventare degli eroi. Siete stati eroici». Così diede a Prigozhin una nuova arma: fu proprio la retorica degli eroi traditi a ingrossare le fila di Wagner, soprattutto in Ucraina, dove i mercenari tornarono nella primavera del 2022 in soccorso delle forze armate.
Tempesta di carne
Nell’aprile dello scorso anno i mercenari di Prigozhin furono di nuovo schierati nella regione di Luhansk per ovviare al rallentamento dell’avanzata russa. Il primo scontro avvenne presso Popasna. La battaglia durò poche settimane e a inizio maggio Wagner rivendicò la conquista della città, che l’esercito non era riuscito a prendere. Ma il loro capo fece di più. Promise che i suoi avrebbero continuato l’avanzata prendendo anche Bakhmut, ad appena una trentina di chilometri a ovest, un obiettivo raggiunto soltanto un anno dopo, a costi altissimi.
L’avanzata si rivelò talmente sanguinosa che Prigozhin fu costretto a reclutare uomini persino nelle carceri. Tra la fine dell’estate e il mese di settembre, il capo di Wagner fu impegnato in un giro dei penitenziari promettendo ai detenuti la libertà dopo sei mesi di servizio e un incentivo immediato di circa 2.000 dollari, ma anche una «morte da eroi». In realtà le nuove reclute erano per lo più carne da cannone.
Mentre i comandi restavano al coperto in bunker a portata di trasmissione radio, i mercenari furono divisi in due categorie: la “A” di cui facevano parte i combattenti professionisti che entravano in battaglia soltanto una volta indebolite le difese ucraine; e la “K” composta da ex detenuti, il grosso delle forze Wagner, inviati ogni venti minuti contro le postazioni nemiche a ondate di una decina di uomini, capeggiati da sottufficiali con il compito di sparare a chi si ritirava. Era la tecnica della “tempesta di carne” che prevedeva perdite terrificanti, attribuite sempre al mancato appoggio delle forze armate, ai ritardi nei rifornimenti di munizioni, ecc.
Critiche poi diventate sempre più esplicite, come nel caso di Lyman. Il ritiro delle truppe russe dalla città nel settembre dello scorso anno fu pesantemente censurato da Prigozhin e dal capo ceceno Ramzan Kadyrov, che accusarono di incompetenza il ministro Shoigu e il capo di Stato maggiore e comandante delle operazioni in Ucraina, Valery Gerasimov. Il gruppo era allora impantanato nella lentissima avanzata verso Bakhmut, considerata pochi mesi prima la porta per completare l’invasione del Donbass. Ma la caduta di Lyman riduceva il valore strategico della conquista della città e i vertici militari russi ne erano perfettamente a conoscenza, ma lasciarono che i mercenari vi si logorassero.
Così, a gennaio, le brutali tattiche del gruppo portarono alla presa di Soledar, a nord di Bakhmut. Era la prima vittoria russa in Ucraina in oltre sei mesi e il ministero della Difesa l’attribuì ai paracadutisti, scatenando le ire di Prigozhin, che ottenne una rettifica in cui si elogiarono «le coraggiose e altruiste azioni dei volontari di Wagner». La competizione si era ormai trasformata in scontro aperto: il capo dei mercenari accusò Shoigu di volergli «rubare la vittoria», mentre l’esercito non otteneva risultati. Per marcare la differenza, ordinò di avanzare ancora ma le perdite superarono i 50 morti al giorno e a febbraio fu costretto a interrompere il reclutamento nelle carceri perché ormai i detenuti non accettavano più le sue condizioni.
Le forze armate provarono ad approfittarne: allora il ministero della Difesa cominciò a reclutare detenuti, inquadrandoli nelle unità Storm-Z, i cui tassi di sopravvivenza erano superiori a quelli dei combattenti “K” di Wagner, che si vide ridurre ulteriormente l’afflusso di uomini. La situazione poi peggiorò: a inizio maggio, davanti a una fila di cadaveri, Prigozhin chiese conto a Shoigu e Gerasimov del mancato afflusso di munizioni e minacciò la ritirata, per poi ripensarci e continuare a combattere. Pochi giorni dopo, la città fu conquistata.
La tensione però aumentò: il 23 maggio accusò le forze armate di aver bombardato le posizioni dei suoi uomini, mentre gli ucraini cominciarono ad avanzare a est e a ovest della città, tuttora circondata. Anche di questo accusò l’esercito, a cui aveva ceduto le postazioni circostanti, ritirandosi comunque il 1 giugno. Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Gli ammutinati
La vendetta di Shoigu arrivò due settimane dopo con un ordine ministeriale, secondo cui tutte le unità di volontari (compresi i mercenari) avrebbero dovuto firmare un contratto con la Difesa entro il 1 luglio. Questo avrebbe significato porre Wagner sotto il comando dei militari, una prospettiva fieramente avversata da Prigozhin ma appoggiata pubblicamente da Vladimir Putin, che fino ad allora era rimasto neutrale nella disputa. D’altronde, la popolarità del capo di Wagner non poteva più essere ignorata: secondo un sondaggio condotto a giugno dal Centro Levada, l’unico ente demoscopico indipendente in Russia, l’indice di gradimento di Prigozhin sfiorava il 60% mentre il 19% degli intervistati era disposto a eleggerlo presidente. Un consenso che ancora dura, visti i mazzi di fiori portati da comuni cittadini sulla sua tomba a San Pietroburgo dopo i funerali strettamente privati di fine agosto.
Allora incrementò la sua offensiva mediatica contro il ministro della Difesa e il capo di Stato maggiore. Definì la guerra un «racket» organizzato da un’élite corrotta. Poi, il 23 giugno, smontò la propaganda del Cremlino sull’invasione, definendo nient’altro che un’invenzione la minaccia di un attacco ucraino e della Nato alla Russia prima del 24 febbraio 2022 e quindi annunciò una «marcia per la giustizia» contro Shoigu e Gerasimov. L’assurdo fu che, secondo l’intelligence Usa, i servizi russi sapevano quanto stava per succedere e persino Putin ne era stato informato. Nessuno però fece nulla.
Furono le 36 ore più pazze della storia della Russia. In breve la colonna di Wagner attraversò il confine e prese Rostov su Don, occupando il quartier generale militare senza sparare un colpo. Le guardie di frontiera e la polizia si limitarono a salutare i mercenari, probabilmente in gran parte ignari di cosa stava accadendo. Parcheggiarono i propri mezzi fuori dall’edificio dell’esercito come se nulla fosse e Prigozhin si intrattenne amichevolmente con due ostaggi di alto rango: il primo vice capo della direzione generale dello Stato maggiore, il generale Vladimir Alekseyev, e il viceministro della Difesa, Yunus-bek Yevkurov. Spiegò che la rivolta era diretta contro Shoigu e Gerasimov, non contro le forze armate. Intanto, annunciò, i suoi marciavano su Mosca e l’ammutinamento si fece più violento. Fuori da Voronezh, Wagner riuscì ad abbattere almeno due velivoli militari, uccidendo una decina di soldati russi.
Ma il loro capo continuò ad affermare che non si trattava di un golpe, anzi. Stavano salvando la Russia. Alla fine fu Putin a intervenire con un discorso in cui definì l’operazione di Prigozhin una «pugnalata alle spalle», mentre l’ex fedelissimo veniva accusato di «insurrezione armata» e sottoposto a perquisizioni e sequestro dei beni (milioni di dollari in contanti, preziosi, documenti, ecc). Poi a 200 chilometri dalla capitale, dove era già stata schierata la Guardia Nazionale per fermare i mercenari, Wagner si ritirò.
Ufficialmente, il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko mediò un accordo tra Prigozhin e il Cremlino, i cui contenuti non sono mai stati divulgati. I negoziati però non sarebbero stati condotti da Minsk ma dalla regione di Tula, il cui governatore Alexei Dyumin, ex ufficiale dell’intelligence militare, in precedenza viceministro della Difesa e prima ancora guardia del corpo di Putin, condivideva alcuni interessi economici con il capo di Wagner. Malgrado l’ufficio del governatore smentì tali voci, il Cremlino si limitò a non commentare, il che sa quasi di una conferma. Alla fine, i mercenari rinunciarono, Shoigu e Gerasimov sono ancora al loro posto e tutti sappiamo com’è andata a finire. Ma il giallo sull’intervento di Dyumin e le 36 ore di ammutinamento raccontano un’altra storia: la rete di sostegno di Prigozhin.
In prima fila c’era il generale Sergei Surovikin, ex comandante dell’aeronautica recentemente estromesso per i suoi rapporti con il capo di Wagner (anche se chiese a Prigozhin di fermarsi, era a Rostov durante l’ammutinamento). L’uomo comunque non era nuovo ai colpi di stato. Nel 1991 partecipò al fallito golpe contro Gorbaciov, che gli costò sei mesi di galera. Riabilitato negli anni Novanta, con Putin partecipò alla seconda guerra cecena e poi tra il 2017 e il 2019 guidò le forze russe in Siria, guadagnandosi l’appellativo di “Macellaio di Aleppo”. Per molti fu allora che incontrò Prigozhin, ma in realtà i due provenivano dalla stessa cerchia di potere. Surovikin fu incaricato dall’allora ministro della Difesa, Anatoly Serdyukov, di istituire una polizia militare nel 2011, proprio negli anni in cui Prigozhin cominciava a vincere appalti.
Inoltre, l’ufficiale beneficiò delle riforme di Serdyukov e del suo capo di Stato maggiore, Nikolai Makarov, che tra il 2008 e il 2012 congedarono l’80% dei colonnelli e il 70% dei maggiori delle forze armate, aprendo la strada a un ricambio del corpo ufficiali e alla creazione di nuove clientele. L’arrivo di Shoigu al ministero però gli precluse la direzione della nuova unità e fu inviato a dirigere il distretto militare orientale. La sua carriera comunque continuò e, grazie ai risultati ottenuti in Siria, nell’ottobre scorso fu nominato comandante delle operazioni in Ucraina, carica da cui fu poi destituito a gennaio, sostituito da Gerasimov. Uno smacco per Prigozhin, che avrebbe preferito l’esatto contrario, ossia che Surovikin subentrasse a Gerasimov come capo di Stato maggiore.
Al posto di Shoigu, il capo di Wagner avrebbe invece voluto un altro militare della cerchia di Serdyukov e Makarov, Mikhail Mizintsev, soprannominato il “Macellaio di Mariupol” per aver conquistato la città al costo di decine di migliaia di morti tra i civili, sparito dai radar dopo il tentato golpe. A differenza di Surovikin, quest’ultimo sembrava capace di destreggiarsi meglio al ministero: nominato da Serdyukov al Comando centrale dello Stato maggiore, conservò la carica anche sotto Shoigu. A settembre, dopo la presa di Mariupol, fu promosso, diventando viceministro della Difesa. La sua carriera però finì ad aprile, quando fu licenziato, forse perché scoperto a passare informazioni sui rifornimenti a Prigozhin.Il loro legame divenne immediatamente chiaro: a maggio, Mizintsev entrò nel Consiglio dei comandanti del gruppo Wagner e si fece vedere persino a Bakhmut.
Ma il generale non era l’unico cavallo su cui puntare contro Shoigu. Ben prima della rivolta, insieme al capo ceceno Kadyrov, Prigozhin caldeggiò un rimpasto ai vertici delle forze di difesa e di sicurezza. Gli uomini più indicati, secondo indiscrezioni del portale Meduza, avrebbero dovuto essere il governatore di Tula, Alexei Dyumin, ex vice di Shoigu e proprio da lui allontanato dal ministero, e Dmitry Mironov, ex viceministro degli Interni, poi governatore della regione di Yaroslav e oggi assistente presidenziale. Entrambi sono ex guardie del corpo di Putin, ma anche personaggi ambiziosi estranei ai vertici militari. Nessuno dei due ha mai pubblicamente appoggiato il capo di Wagner, anche se durante il fallito golpe in molti notarono l’assenza di Dyumin al Cremlino quando i governatori regionali si affrettarono a portare personalmente il proprio sostegno al presidente. Ad ogni modo, Prigozhin perse la partita e fu inizialmente costretto a trasferire i suoi uomini in Bielorussia. Ma non abbandonò la Russia.
Giallo al Cremlino
I suoi ultimi due mesi di vita sono infatti compresi tra due incontri al Cremlino. Pochi giorni dopo l’ammutinamento, il 29 giugno, il presidente russo incontrò Prigozhin e i comandanti militari di Wagner. In quell’occasione, il leader russo prospettò un cambio di leadership del gruppo, avversato dal suo ex fedelissimo. Quello che allora Prigozhin non vide, perché seduto di spalle ai suoi uomini, è che molti dei presenti annuirono. Il piano era togliergli il giocattolo, negoziando direttamente con i suoi comandanti sul campo. Non a caso, a fine luglio, mentre Prigozhin partecipava al Summit Russia-Africa a San Pietroburgo, secondo l’intelligence Usa sbarcava nel continente il generale Andrey Averyanov, capo dell’unità 29155 dei servizi militari Gru, accusata di aver avvelenato l’ex spia russa Sergej Skripal nel 2018 a Salisbury, nel Regno Unito. Proprio Averyanov sarebbe stato incaricato dai vertici militari di sostituire i mercenari di Wagner impegnati nel Sahel e in Repubblica Centrafricana con una milizia da 20mila uomini.
È per impedire tale piano che Prigozhin sarebbe tornato di corsa in Russia. L’intenzione era di incontrare Putin, una riunione che, secondo indiscrezioni del canale russo VchK-OGPU, sarebbe avvenuta nelle ore precedenti la sua morte, una possibilità smentita dal Cremlino. Secondo l’agenda ufficiale, tra il pomeriggio del 22 e la sera del 23 agosto, Putin avrebbe partecipato in video collegamento al vertice Brics di Johannesburg, incontrando poi a Mosca i governatori delle regioni occupate di Luhansk e Zaporizhzhia, prima di recarsi a Kursk per celebrare l’80esimo anniversario della vittoria sui nazisti. Insomma, secondo il Cremlino, non avrebbe avuto il tempo di incontrare Prigozhin. Ma l’indomani fu lo stesso Putin, incontrando il governatore della regione occupata di Donetsk Denis Pushilin, a confermare che il capo di Wagner era in Russia per motivi “istituzionali”. «Per quanto ne so, solo ieri è tornato dall’Africa e ha avuto incontri con diversi funzionari», rivelò.
«Era un uomo dal destino difficile e ha commesso alcuni errori gravi nella sua vita, ma ha anche ottenuto risultati per se stesso e anche per il bene comune quando gliel’ho chiesto, come è successo negli ultimi mesi». Così Putin ha chiuso la vicenda umana e politica di Prigozhin. Come uno strumento, ormai non più utile.