L’Italia è sempre di più spaccata a metà. Da un lato c’è un Paese che non arriva a fine mese, oltre 5 milioni di italiani disoccupati, perciò poveri, sprovvisti di un qualsiasi reddito con cui poter affrontare le spese di prima necessità, come quelle alimentari, per i bambini e i medicinali: una fetta sostanziale della popolazione che vive in un’area del nord del mondo in condizioni da sud del mondo.
Dall’altra c’è invece una nazione perlopiù ricca, conservatrice per natura, dotata di liquidità attiva o dormiente e di uno o più immobili di proprietà, la quale per metà (un contribuente su due) dichiara al fisco meno di 17.800 euro l’anno, mentre appena duecentomila italiani (sui 41 milioni totali) dichiarano sopra i 150mila euro l’anno e solamente 40mila (circa la metà di uno stadio gremito) oltre i 300mila.
Questi numeri dovrebbero far rabbrividire al solo pensiero per due motivi: 1. Sono 20,5 milioni gli italiani che dichiarano di vivere con 1.100/.1300 euro al mese. Il che, dinnanzi ai costi della vita in costante crescita da ormai un anno, è quasi matematicamente impossibile, specie nelle medie e grandi città; 2. Non solo i poveri hanno paura di essere poveri, in Italia: anche i ricchi hanno timone a dirsi ricchi.
È lo specchio di un Paese sempre più diviso, frammentato, polarizzato. Ma che al contempo nella sua interezza è inviso allo Stato e, a sua volta, profondamente contro lo Stato.
Da una parte chi si sente in colpa per essere povero, umiliato per essere stato aiutato grazie al reddito di cittadinanza, e poi definitivamente calpestato e dimenticato da una classe dirigente che disdegna il sostegno quasi che questo costituisse il fallimento della vita (furbetti del reddito a parte).
Dall’altra, furbetti dell’evasione a parte, chi contribuisce al fisco in minima parte e si nasconde ormai sistematicamente per paura che il “pizzo di stato” (Meloni dixit) diventi un giorno “patrimoniale di Stato”, sottraendo alla comunità ciò che invero gioverebbe a loro stessi nell’interesse del Paese che abitano.
Ciò che oggi di più impressiona, anche fra un ceto abbiente e mediamente istruito, è dunque la più totale mancanza di fiducia nei confronti Stato, nelle sue forme di controllo e di potere, nel suo funzionamento, nella sua giustizia, anche quando quest’ultimo è sotto il controllo pressoché totale del più radicale governo di destra in termini di politiche economiche e sociali.
Senza considerare che chi elude il fisco, spesso e volentieri, è anche chi poi pretende e usufruisce di servizi pubblici finanziati grazie solo ad una parte dei contribuenti: il più delle volte non la loro.
Ogni anno si stima che il mancato introito delle tasse da parte di tutti i contribuenti italiani, nelle modalità e nelle somme dovute, corrisponda a circa 100 miliardi di euro.
Solo così possiamo spiegare e giustificare il boom dei “servizi” privati tout court – in qualsiasi campo, attività e ambito, ancor meglio se estremamente di lusso e se in nero – valvola di sfogo di quei 100 miliardi sottratti al fisco. Perché non tassati, appunto. E quindi percepiti come risparmio.
Questo è il motivo per cui ancora troppe volte ci sorprendiamo e non riusciamo a spiegarci come mai, nonostante la crisi, i ristoranti siano pieni e gli hotel pure; e al contempo come mai, nonostante l’Italia sia un Paese occidentale e ricco, milioni di italiani non arrivino a fine mese e abbiano bisogno di essere aiutati.
Da queste due forti pulsioni il governo è spinto: diviso tra il popolo del reddito e quello del fisco, tra il consenso popolare e le promesse elettorali da mantenere. Inutile dire da quale parte cada la bilancia. Buona estate.