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Matteo Innocenti a TPI: “Vi spiego cos’è l’Ecoansia e come curarla”

I fenomeni meteorologici estremi a cui stiamo assistendo quest’estate non hanno impatto solo sull’ambiente, ma anche sulla salute mentale, alimentando in certuni stress, ansia, depressione, fino anche all’istinto al suicidio, come certifica l’Organizzazione mondiale della Sanità. Si parla così sempre più spesso di “ecoansia”, definita dall’American Psychological Association come una «paura cronica del disastro ambientale». 

Il termine – balzato sulle prime pagine dei giornali italiani la scorsa settimana, dopo lo sfogo pubblico di una ragazza al Giffoni Film Fest, davanti al ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin – è stato coniato dal filosofo australiano Glenn Albrecht, che la definisce come la sensazione generalizzata che le basi ecologiche dell’esistenza siano in procinto di crollare. A esserne maggiormente colpiti sono i giovani, consci che la deriva ambientale sta compromettendo il loro futuro. 

Secondo un recente studio pubblicato su The Lancet il 59% di chi ha tra i 16 e i 25 anni si definisce «molto o estremamente» preoccupato. Ne abbiamo parlato con il dottor Matteo Innocenti, psichiatra, psicoterapeuta cognitivo comportamentale e presidente dell’Associazione Italiana Ansia da Cambiamento Climatico (Aiacc), autore del volume “Ecoansia. I cambiamenti climatici tra attivismo e paura” (Erickson, 2022). 

Dottor Innocenti, cos’è l’ecoansia?
«È un’emozione persistente e pervasiva, che va distinta dall’ansia da cambiamento climatico. Quest’ultima è una condizione di apprensione verso la propria incolumità e gli effetti del mutamento del clima, come gli eventi metereologici estremi. L’ecoansia invece è più una condizione esistenziale verso tutto ciò che è legato al cambiamento climatico, dalla perdita della biodiversità all’inquinamento. Questa condizione di ecoansia è acuita da fenomeni più evidenti, come gli incendi o ondate di calore, ma è una situazione persistente che in alcuni casi si può definire un disturbo dell’adattamento. Non sempre chi soffre di ansia da cambiamento climatico ha anche ecoansia». 

Chi soffre maggiormente di ecoansia?
«Attivisti, giornalisti, scienziati, cioè chi è costantemente in contatto con tali tematiche. Queste persone, di fronte a eventi climatici estremi, riescono a gestire meglio lo stress, perché li comprendono e sono informati. Ad aumentare la loro ecoansia sono altri fattori, come decisioni politiche o casi di greenwashing». 

Tra chi ne soffre ci sono molti giovani.
«Innanzitutto perché sono ovviamente più interessati al futuro del pianeta, ma anche perché sanno cambiare più facilmente le loro abitudini rispetto alle passate generazioni. Hanno maggiore consapevolezza perché conoscono meglio l’inglese, e quindi possono attingere a fonti estere. Sono inoltre più bravi a fare rete e scambiarsi idee, anche grazie ai social». 

L’ecoansia al momento non è inserita nel manuale di riferimento per i disturbi mentali, il Dsm-5.
«Si tratta di emozioni particolari, e quindi non sono patologie. Come anche ad esempio l’ansia da esami. Se si supera un certo limite, l’ecoansia può sfociare in un disturbo d’ansia generalizzato o attacchi di panico. Può inoltre peggiorare la sintomatologia di soggetti che hanno già un disturbo». 

Quali sono i sintomi più comuni?
«Ad esempio paura e mancanza di speranza, come la scarsa fiducia nelle istituzioni. Spesso si fanno pensieri e sogni ricorrenti sul cambiamento climatico. E ancora: senso di colpa verso le proprie azioni, come usare un bicchiere di plastica o guidare la macchina. Fino ai sintomi più importanti, come la paura a fare figli. Può anche sfociare nell’ecoparalisi, che è una condizione di stasi nella quale non si fa niente per affrontare quest’ansia». 

Come si può reagire?
«Normalmente chi ha l’ecoansia cerca di mettere in atto comportamenti pro-ambientali per sentirsi utile. Devo dire che, parlando spesso con gli attivisti, a volte li trovo scoraggiati perché si rendono conto che i loro gesti servono a poco, se non ci sono decisioni politiche incisive. Il problema non è l’ecoansia, ma il cambiamento climatico».

Il fenomeno opposto è quello del negazionismo climatico.
«Il negazionismo crea dibattito ed è quindi molto utile, per esempio, nel racconto dei media. Dal mio punto di vista è una risposta comportamentale disadattativa: vedo qualcosa che mi fa paura, non voglio gestire quest’emozione sgradevole, e allora nego. Creo una storia alternativa per non accettare qualcosa che mi darebbe fastidio, come il fatto che siamo vicini all’estinzione. È una risposta difensiva. Per questo, dal punto di vista psicologico, insisto sul fatto che con loro andrebbe fatto un lavoro di accettazione e informazione, perché di fatto stanno mettendo da parte qualcosa di cui hanno paura. Da alcuni studi abbiamo visto che i negazionisti climatici sono gli stessi che erano contrari ai vaccini durante il Covid. Inoltre, sono persone per lo più con una bassa istruzione e un determinato orientamento politico». 

Fa riflettere il fatto che molti di questi giovani arrivino a non voler avere figli.
«Una persona decide di non fare un figlio perché vede un futuro negativo. Quelle che devono cambiare, ribadisco, sono le politiche, favorendo la transizione ecologica. Ognuno di noi può dare nel suo piccolo un contributo, ad esempio modificando l’alimentazione. Ma la responsabilità non può essere spostata sul singolo: spetta alle grandi aziende e ai governi. Serve un cambio immediato se vogliamo evitare la catastrofe climatica». 

Quali possono essere le cure per chi soffre di ecoansia?
«Innanzitutto mettere in pratica comportamenti pro-ambientali, fare gruppo con altre persone che condividono lo stesso problema, e stare il più possibile a contatto con la natura. Questo stimola emozioni positive come la biofilia, che ci avvicinano all’ambiente. L’ecoansia diventa così amore verso un pianeta che vogliamo salvare». 

Visto che l’ecoansia riguarda in particolare i giovani, quale può essere il ruolo di genitori e insegnanti?
«Devono saper comunicare il cambiamento climatico, nella maniera più scientifica possibile. Non essere allarmisti, ma nemmeno minimizzare. Dire chiaramente cosa sta succedendo, di chi sono le responsabilità e cosa può essere fatto per migliorare la situazione. Bisogna essere realisti, pur infondendo sicurezza». 

Di chi sono allora queste colpe?
«Il sistema economico ormai muove come pedine i grandi potenti del mondo. Dobbiamo far capire che non bisogna inquinare o comprare fast fashion non solo per evitare il cambiamento climatico, ma per non alimentare la schiavitù e la distruzione di ecosistemi. Il mutamento del clima è solo la punta dell’iceberg di un processo di sfruttamento di persone e risorse della Terra». 

Che ne pensa delle proteste più eclatanti degli attivisti, come chi imbratta le opere d’arte?
«Bisogna sempre vedere gli effetti delle cose. Esprimono una forte sofferenza e preoccupazione, oltre ad una mancanza di ascolto. Sono azioni dirompenti che possono allontanare dalla causa l’opinione pubblica. Sarebbe quindi meglio fare gesti di altro tipo, ma se arrivano a questi estremi è perché probabilmente prima non sono stati presi in considerazione, e cercano così di ottenere attenzione. Forse non è il modo giusto, ma serve maggior dialogo». 

Quali scenari prevede per il futuro?
«Bisogna unirsi e lottare contro un sistema capitalistico che sta portando il mondo al collasso. La lotta al cambiamento climatico diventerà inevitabilmente una lotta di classe, perché le fasce più deboli saranno quelle più colpite».

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