Trentacinque anni di processi, quattordici sentenze. Un pronunciamento di un tribunale internazionale, la Corte europea dei diritti dell’uomo. La verità giudiziaria – e soprattutto storica – è forse una delle più solide mai avute per un caso di terrorismo. La strage di Bologna del 2 agosto 1980 ha un colpevole sicuro, senza nessuna ombra di dubbio: a mettere la bomba che uccise 85 persone, ferendone 200, fu un’organizzazione neofascista. Anzi, probabilmente più di una, in una sorta di consorzio del terrore.
Il punto di partenza per capire cosa sia stato l’attentato nella sala di attesa di seconda classe di quarantatré anni fa non può che essere questo.
Ripercorrere le decisioni dei giudici – qualche decina – togati e popolari, mettendo in fila gli elementi di prova raccolti, vagliati con centinaia di ore di testimonianze (tutte disponibili su Radio Radicale per chi volesse approfondire) e centinaia di migliaia di pagine di documenti è però un esercizio utile.
Come vedremo, da almeno trent’anni una parte dell’opinione pubblica italiana – non maggioritaria, ma sempre con ottimi alleati nella politica e nei media – cerca di negare la responsabilità dei Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar), il gruppo eversivo guidato da Valerio Fioravanti.
Anni di piombo
Piste alternative, come quella che vorrebbe attribuire la responsabilità alle organizzazioni palestinesi, l’Olp di Yasser Arafat e il Fplp (Fronte popolare di liberazione della Palestina) di George Habash sono fiorite subito dopo l’esplosione della bomba. Tutte vagliate attentamente dai magistrati e scartate.
Già il 3 agosto in un programma di Rai 2, Tg2 Dossier, la giornalista statunitense Claire Sterling – legata alla Cia, come emerge da diverse carte e testimonianze – sosteneva l’ipotesi di un coinvolgimento del terrorismo internazionale. Il che, all’epoca, voleva dire guardare verso il fronte mediorientale.
Pochi giorni dopo partì un’operazione di depistaggio messa in cantiere da uomini di peso della loggia massonica P2 e del Sismi. Si chiamava “terrore sui treni” e cercava di inquinare le indagini ancora in una fase iniziale, spostando il baricentro fuori dall’Italia.
Le indagini non furono semplici. Rileggendo, però, le prime note circolate all’interno del circuito del Viminale poche ore dopo la strage, l’impressione è che quell’attentato fosse in qualche maniera atteso.
Già il 2 agosto 1980, quando nei telegiornali ancora si parlava dell’esplosione di una caldaia, la Digos di Bologna mandava un telegramma a tutte le Questure d’Italia: «Relazione esplosione avvenuta stamane locale stazione Fs non potendosi escludere anche attentato cui matrice potrebbe farsi risalire su elementi destra extraparlamentare», si legge nel documento. «Pregasi controllare ambito rispettive giurisdizioni presenza noti esponenti at disciolto movimento Ordine Nuovo e Fronte Nazionale Rivoluzionario, et Ordine Nero».
Sigle non citate a caso: quel giorno era stata depositata l’istruttoria sull’attentato all’Italicus del 4 agosto 1974, che aveva visto coinvolte le organizzazioni inserite nella comunicazione della Digos bolognese. Sei anni prima un’altra bomba – caricata con la termite per poter creare uno scenario da guerra – era esplosa su un treno partito nella notte da Firenze e diretto a Bologna.
L’esplosione doveva avvenire nella capitale emiliana, ma il ritardo non previsto del treno provocò l’innesco alla fine della galleria della linea direttissima, all’ingresso della stazione di San Benedetto Val di Sambro, sull’appennino tosco-emiliano. Il 2 agosto 1980 precedeva di due giorni l’anniversario di quella strage.
A partire dal settembre 1980 l’attenzione degli investigatori iniziò a concentrarsi sulle organizzazioni romane dell’eversione nera, che vennero di fatto smantellate con una serie di ordini di cattura. La capitale era senza dubbio un vaso di Pandora in ebollizione, che nessuno aveva voluto aprire fino a quel momento.
Il 23 giugno di quell’anno era stato ucciso il pubblico ministero Mario Amato, l’unico che aveva capito la pericolosità dell’eversione nera, in perfetta e pericolosa solitudine e in perenne scontro con il capo dell’ufficio e l’avvocatura romana. Le vie di Roma erano cosparse di morti e da un paio d’anni le organizzazioni neofasciste organizzavano attentati con esplosivi davanti a sedi istituzionali. In un caso, a piazza Indipendenza, davanti alla sede del Consiglio Superiore della Magistratura, si era sfiorata la strage, evitata solo per un malfunzionamento dell’innesco.
Parola ai giudici
La prima sentenza della Corte di Assise di Bologna arrivò dopo otto anni di indagini, l’11 luglio 1988. I giudici condannarono per la strage del 2 agosto Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco, un esponente della destra che rimase leggermente ferito alla stazione, e dunque sicuramente presente sul luogo dell’attentato. Vennero condannati anche Licio Gelli, Francesco Pazienza, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte per il depistaggio “terrore sui treni”. Era l’inizio di un lungo percorso giudiziario, che dura ancora oggi.
Il 18 luglio 1990 la Corte di Assise d’Appello ribalta quella sentenza, assolvendo i tre dal delitto di strage e i piduisti dal reato di calunnia. Il 12 febbraio 1992 la Corte di Cassazione ripristina la condanna iniziale, annullando le assoluzioni dell’appello.
Nel rinvio davanti ai giudici di secondo grado vengono confermate le condanne per strage per Fioravanti, Mambro e Picciafuoco. Il pronunciamento diventa definitivo il 16 maggio 1994, con la sentenza delle sezioni unite della Cassazione, il massimo grado di legittimità dell’ordinamento italiano. Viene stralciata però la posizione di Sergio Picciafuoco e rinviato il suo fascicolo alla corte di Assise d’Appello di Firenze, che il 18 giugno 1996 lo assolve. Un anno dopo la Cassazione confermerà questa decisione.
La decisione della magistratura italiana venne poco dopo vagliata anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la Cedu. Il 21 agosto 1996 i legali di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti – condannati in via definitiva all’ergastolo per la strage – presentarono un ricorso a Strasburgo, lamentando la violazione del diritto ad un processo giusto. La Cedu il 9 settembre 1998 chiuse definitivamente la partita, respingendo il ricorso e attestando che il giudizio si era svolto correttamente, nel pieno rispetto dei diritti della difesa, valutando in maniera completa ed equilibrata le testimonianze. La partita, dunque, si era chiusa.
La loro carcerazione non durò moltissimo e poco dopo la pronuncia della corte europea i due stragisti iniziarono a beneficiare della semilibertà. Da diversi anni sono liberi.
Il minorenne
Il terzo membro dei Nar condannato in via definitiva per la strage era all’epoca dei fatti minorenne. Luigi Ciavardini il 2 agosto 1980 aveva appena 17 anni, ma anche un’esperienza criminale già consolidata.
Prima dell’attentato a Bologna aveva partecipato a diverse azioni dell’organizzazione, con un ruolo attivo nell’omicidio dell’agente di polizia Francesco Evangelista e del magistrato Mario Amato. È indagato per la prima volta il 10 maggio 1986 e il 4 aprile dell’anno successivo gli atti vengono inviati al procuratore del Tribunale dei minorenni.
Il magistrato decide però di astenersi dal giudizio fino alla sentenza di primo grado del processo principale contro Mambro, Fioravanti e Picciafuoco. Dopo l’assoluzione in secondo grado dei Nar, l’11 dicembre 1990 l’ufficio inquirente minorile chiede l’archiviazione del fascicolo, ma il Gip respinge l’istanza, chiedendo di proseguire le indagini.
Quando la Cassazione annulla l’assoluzione di Mambro e Fioravanti, il Gup di Bologna rinvia a giudizio Ciavardini per il delitto di strage. Due anni dopo, Il 18 aprile 1997, il processo a Ciavardini finalmente inizia.
Il primo grado termina con un’assoluzione, ma la Corte d’Appello di Bologna il 9 marzo 2002 ribalta il giudizio, condannando Ciavardini per la strage. Dopo un primo annullamento della Cassazione, la condanna viene confermata e diventa definitiva.
Ciavardini viene condannato per aver partecipato direttamente alla preparazione dell’attentato: ha infatti fornito lui il documento falso a Valerio Fioravanti il giorno prima della strage e, probabilmente, ha piazzato la bomba all’interno della sala d’aspetto.
In questi mesi Luigi Ciavardini – fuori dal carcere dal 2009 – è tornato da imputato a Bologna per rispondere di falsa testimonianza aggravata. Nel 2018, durante il processo contro il presunto quarto membro del commando, Gilberto Cavallini (condannato in primo grado, l’appello è in corso, la sentenza è prevista per il prossimo autunno), si è rifiutato di fornire i nomi delle persone che offrirono un appoggio logistico al gruppo dei Nar in Veneto poco prima della strage. Non è questione banale.
Pista veneta
Non essendoci mai stata nessuna reale collaborazione da parte degli autori dell’attentato, la vera difficoltà del processo è stata quella di ricostruire compiutamente il contesto della strage. La Procura di Bologna fin dagli anni Ottanta indicò una doppia matrice territoriale, fattore che ha un peso per capire collegamenti e possibili mandanti.
Se da una parte gli esecutori accertati – Mambro, Fioravanti e Ciavardini – erano membri di spicco dei Nar, molti elementi portano a ricostruire un legame con il nucleo veneto di Ordine Nuovo, ovvero il motore ideologico e organizzativo della strategia della tensione, a partire da Piazza Fontana.
Gli stragisti condannati hanno sempre definito il gruppo dei Nuclei Armati Rivoluzionari come una banda di «spontaneisti», ovvero slegati – anzi, in opposizione – dal contesto delle organizzazioni storiche del neofascismo eversivo, come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
Le sentenze passate in giudicato hanno ricondotto il commando che ha agito il 2 agosto 1980 esclusivamente al contesto romano dei Nar. Gli ultimi processi, però, hanno riaperto le indagini su questo versante.
Tra il 2018 e il 2021 sono stati condannati in primo grado prima Gilberto Cavallini, anche lui membro dei Nar, ma in stretti rapporti con gli ordinovisti veneti, e poi Paolo Bellini, esponente di Avanguardia Nazionale, in stretto rapporto con Stefano Menicacci, avvocato e socio di Stefano Delle Chiaie. Le sentenze di condanna nei confronti di Bellini (e dei mandanti) e di Cavallini riprendono e valorizzano questa connessione veneta.
Inoltre, il processo Bellini allarga l’orizzonte del gruppo responsabile della strage anche alle organizzazioni Avanguardia Nazionale e Terza Posizione, inserendo poi nella filiera dei mandanti, dei finanziatori e dei depistatori anche la loggia P2, l’ex prefetto Federico Umberto D’Amato e l’ex parlamentare del Msi Mario Tedeschi.
Botto annunciato
Tra gli elementi di prova ritenuti credibili dai magistrati nel corso dei diversi processi, ci sono alcuni episodi eclatanti, veri e propri annunci della strage. Un detenuto nella casa circondariale di Padova, Vettore Presilio, poco meno di un mese prima dell’attentato contatta il magistrato di sorveglianza Giovanni Tamburino. Gli riferisce quanto aveva appena appreso in carcere da un estremista di destra, Roberto Rinani, detto “L’ammiraglio”.
La prima notizia riguarda il rischio che un collega di Tamburino stava correndo: «Stanno preparando un attentato contro Giancarlo Stiz», il magistrato di Treviso che aveva indagato su Ordine Nuovo. Fu il primo giudice istruttore a capire la matrice della destra eversiva per Piazza Fontana, mentre a Milano si cercava ancora la pista anarchica.
Il racconto di Presilio andò però oltre, annunciando quanto stava per accadere a Bologna. Il detenuto raccontò che qualche giorno dopo, infuriato per la sua mancata scarcerazione, Rinani gli aveva rivelato anche altro: «Potranno pure trattenermi in galera, ma vedrai che la prima settimana di agosto succederà qualcosa di grosso di cui parlerà l’opinione pubblica nazionale e mondiale».
Quella voce di una strage imminente era diffusa nell’area della destra. L’ex terrorista Mauro Ansaldi nel 1982 durante un suo interrogatorio raccontò che Fabrizio Zani e Giovanna Cogolli (due esponenti dell’area eversiva neofascista) pochi giorni prima della strage incontrarono l’esponente del gruppo ordinovista veneto Massimiliano Fachini: «Andatevene da Bologna», furono le sue parole. Fachini, secondo il racconto, annunciò che da lì a poco vi sarebbe stata un’azione dei «provocatori di Avanguardia Nazionale legati ai Servizi segreti».
Il caso Sparti
C’è un testimone diretto ritenuto credibile dai vari tribunali che hanno giudicato Mambro, Fioravanti e Ciavardini. Si chiama Massimo Sparti, era un criminale romano strettamente legato alla destra eversiva.
Ha testimoniato diverse volte davanti alla Corte d’Assise, confermando sempre il suo racconto: il 4 agosto, tre giorni dopo la strage, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro si presentarono da lui, dicendo «Hai visto che botto?», aggiungendo che a Bologna si erano vestiti in modo da sembrare turisti tedeschi e che la Mambro poteva essere stata notata. La terrorista dei Nar aveva dunque bisogno urgentemente di documenti falsi.
Nel corso del processo contro Gilberto Cavallini la Corte d’Assise ha ascoltato, il 14 novembre 2018, un’altra testimone chiave: Mirella Cuoghi. La testimone era presente nella piazza della stazione al momento dell’attentato e notò due uomini ed una donna: «Erano con scarponi, calzoni, calzettoni molto grossi… erano vestiti alla tirolese».
Nel 1983, durante le indagini, alla testimone erano state mostrate delle fotografie e riconobbe Francesca Mambro. La sua deposizione è un’ulteriore conferma della testimonianza di Massimo Sparti, ma per anni la donna non era mai stata sentita in Tribunale.