Emmanuel Macron non teme di «bagnarsi la camicia» (in Italia diremmo che non ha paura di “sporcarsi le mani”), anche a costo di scatenare divisioni in Europa. La battuta di un anonimo consigliere presidenziale francese è stata riportata da France Info nella stessa settimana in cui, dopo aver ricevuto a Parigi sia Giorgia Meloni che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il leader transalpino ha appoggiato Riad invece di Roma come città candidata a ospitare Expo 2030. Poco prima – per la terza volta in sei mesi – aveva incontrato il miliardario Elon Musk per convincerlo a costruire una mega-fabbrica di auto elettriche in Francia, invece che in Italia.
Parigi non è l’unica a corteggiare il patron di Tesla, che prima di sbarcare Oltralpe era atterrato proprio a Roma che, come la Spagna, vorrebbe attrarre gli investimenti dell’azienda texana, già proprietaria di uno stabilimento alle porte di Berlino. Ma la strategia di Macron, che nell’ultimo mese ha incontrato Musk per ben due volte, sembra più ampia e arriva fino in Cina, Paese contro cui l’Eliseo sembra pronto a scatenare una guerra commerciale sull’auto che sta dividendo l’Europa proprio lungo le sponde del Reno.
L’acceleratore francese
Sebbene l’attuale quota di mercato in Europa dei marchi cinesi Byd, Great Wall, XPeng e Nio sia ancora limitata, il futuro dell’auto nel Vecchio Continente potrebbe parlare cinese. Secondo uno studio della Corte dei Conti europea, Pechino detiene il 76% di tutta la capacità globale di produzione delle batterie per i veicoli elettrici. Non solo: secondo un’analisi di Transport & Environment, se ad oggi meno del 5% delle auto elettriche vendute nell’Ue arriva dal gigante asiatico, tale quota è destinata ad arrivare fino al 18% entro il 2025. È qualcosa di più di una semplice previsione: secondo l’ufficio statistico tedesco DeStatis, nel primo trimestre del 2023 le importazioni in Germania di vetture elettriche prodotte in Cina sono più che triplicate rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Come dire che la tanto temuta penetrazione cinese nel mercato europeo sta già accadendo.
Di fronte a questo scenario, le ricette di Parigi e Berlino sono diametralmente opposte: «Dobbiamo svegliarci», disse Macron nell’ottobre scorso in occasione del Salone dell’auto di Parigi. «L’Europa deve preparare una risposta forte e muoversi molto rapidamente». Parole riprese dal commissario europeo per il Mercato Interno, Thierry Breton, «favorevole all’apertura di un’indagine anti-dumping nel settore delle auto elettriche», sostenuta dal Chief trade enforcement officer della Commissione europea, Denis Redonnet. Ma anche dall’industria dell’auto francese, con in prima fila Renault e Stellantis, le cui vendite sono concentrate per lo più in Europa.
Il freno tedesco
È proprio su questo punto che Germania e Francia si dividono. A differenza dei loro competitor d’Oltralpe, le tedesche Volkswagen, Bmw e Mercedes-Benz temono ritorsioni da parte di Pechino, che in caso di guerra commerciale potrebbe rispolverare vecchi metodi.
«Non dobbiamo ripetere nel mercato delle auto elettriche gli errori che abbiamo commesso con il fotovoltaico, dove abbiamo reso l’Europa dipendente dall’industria cinese e consentito ai produttori in Cina di prosperare», tuonò Macron qualche mese fa. Anche allora però, era il 2012/2013, Bruxelles provò ad attuare una serie di misure anti-dumping contro Pechino. Alla fine la guerra commerciale non scoppiò per un soffio ma l’Ue perse la partita, anche perché la Cina non ha mai disdegnato di ricorrere al consolidato “divide et impera”, mettendo uno Stato membro contro l’altro, minacciando ritorsioni selettive contro il vino di un Paese e l’aeronautica di un altro. Uno scenario ripetutosi negli ultimi due anni, dopo che l’Ue ha sconfessato un accordo commerciale mediato nel 2020 da Angela Merkel.
Esattamente ciò che temono oggi le case automobilistiche tedesche, per cui il mercato cinese è fondamentale, soprattutto per Volkswagen. Secondo il tedesco Center for Automotive Management (Cam), il 40% delle vendite dell’azienda di Wolfsburg nel 2022 si sono concentrate in Cina, considerato il «secondo mercato interno» della società, dove si trova anche il più grande stabilimento all’estero della Mercedes.
Malgrado le divergenze però, Parigi e Berlino stanno già attirando investimenti da Tesla e investendo sulle batterie per liberarsi dalla dipendenza cinese. A marzo, il governo francese ha inaugurato la gigafactory Automative Cell Company (Acc) a Lens, di proprietà di TotalEnergies, Stellantis e Mercedes-Benz, con investimenti anche italiani. Intanto, la taiwanese ProLogium ha annunciato che aprirà un impianto Dunkerque, in Francia, mentre la svedese Northvolt investirà a Heide, nel nord della Germania.
Bivio all’italiana
Roma invece sembra più interessata al dibattito interno. Prima di tutto non pare aver convinto Musk, che in un’intervista a France2, ha ribadito il suo interesse per la Francia, affermando che in futuro un progetto «significativo» nel Paese è «molto probabile». D’altronde, il patron di Tesla e SpaceX ha già raggiunto altri accordi con Parigi in ambito aerospaziale e delle materie prime mentre l’approccio al “Made in Italy” del nuovo Governo potrebbe non risultare particolarmente attraente per le multinazionali straniere.
Il ripiegamento sul dibattito nazionale poi è evidente anche dalle dichiarazioni provenienti dalla Lega, che ne ha per tutti. Il ministro delle Infrastrutture e vicepremier Matteo Salvini sospetta una complicità tra Ue, Germania e Cina per favorire la mobilità elettrica contro l’industria italiana: «Dire dal 2035 o elettrico o niente, è qualcosa che probabilmente conviene a qualcuno», ha accusato a inizio giugno il leader del Carroccio, contrario al bando dei motori termici a benzina e diesel. «Ho visto i dati sullo scambio Germania-Cina. Esportazioni dalla Germania verso la Cina: -23%. Importazioni dalla Cina alla Germania, +28%. Come c’è stato un Qatar-Gate, nessuno mi toglie l’idea che non ci possa essere un Cina-Gate». Una posizione rincarata dall’europarlamentare leghista Anna Cinzia Bonfrisco che – a riprova della sospetta complicità – ha ricordato a Euractiv come il primo tour all’estero del nuovo premier cinese Li Qiang preveda come prime tappe la Germania di Scholz e la Francia di Macron.
Al di là del sapore complottista, è indubbio quanto l’Italia abbia a cuore la questione visto che il numero di posti di lavoro interessati dalla transizione alla mobilità elettrica nel nostro Paese è stimato tra i 60mila e i 100mila, per lo più impiegati nel settore della componentistica. Quale sia la strada giusta per Roma, tra quelle tracciate da Parigi e Berlino, non è ben chiaro. Basta dare uno sguardo ai numeri: secondo l’edizione 2022 dell’Osservatorio sulla componentistica automotive italiana di Anfia, un terzo delle oltre 2.200 imprese italiane del settore automotive ha sede in Piemonte. Molte sono ancora legate a Stellantis: «Quasi l’81% delle imprese», sottolinea il rapporto, «ha dichiarato che una parte del fatturato proviene dal nuovo costruttore (italo-francese, ndr) – a fronte del 79% del 2021 – mentre nelle altre regioni d’Italia la quota, oggi pari a poco meno del 68%, l’anno prima era al 66%». Ma altrettanto forte è il legame con la Germania: «Ben il 78,3% dei fornitori piemontesi che hanno esportato nel 2021», prosegue lo studio, «ha avuto tra i principali clienti esteri le case automobilistiche tedesche».
Anche se non sapremmo indicare quale sia il miglior interesse per l’Italia, qualcuno ha già fatto la sua scelta. Il gruppo Stellantis, neanche a dirlo, sta con Parigi. «Le normative europee fanno sì che il costo delle automobili elettriche costruite in Europa sia di circa il 40% più alto rispetto alle concorrenti cinesi», aveva avvisato a gennaio l’a.d. di Stellantis, Carlos Tavares, invitando l’Ue a «prendere provvedimenti». Dazi o no, probabili ritorsioni cinesi o meno, l’Italia sembra avere solo da perdere, soprattutto dall’indecisione.