Ogni mattina un «patriota» si sveglia con una missione: onorare l’identità nazionale, proteggerla dalle contaminazioni, santificarne «le radici giudaico-cristiane». Da quando a palazzo Chigi c’è Giorgia Meloni il risveglio è senz’altro più dolce, ma il vero patriota lo si riconosce dall’abnegazione: mai abbassare la guardia, se c’è in ballo l’onore italico. Anzi, è proprio quando il vento della storia soffia a proprio favore, che bisogna affondare il colpo.
Dev’essere questo il ragionamento che si fa tra i banchi parlamentari di Fratelli d’Italia: non si spiega altrimenti il profluvio di proposte di legge che provengono dagli scranni meloniani dall’inizio di questa legislatura e che mirano, appunto, alla salvaguardia dell’italianità in tutte le sue forme. In particolare una: quella linguistica. Perché, se c’è una cosa che gonfia più di ogni altra la sensibilità dei patrioti, quella è la lingua italiana.
Lo scorso novembre, ad appena un mese dall’insediamento delle nuove Camere, il senatore Roberto Menia – residente a Trieste ma nato a Pieve di Cadore, sulla sponda destra del più patriottico dei fiumi, il Piave – ha presentato un disegno di legge costituzionale intitolato «Riconoscimento dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica».
Menia – che è alla sua prima legislatura a Palazzo Madama, dopo averne fatte cinque a Montecitorio tra il 1994 e il 2013 – era stato primo promotore, una ventina d’anni fa, insieme a Ignazio La Russa, della legge che istituì il Giorno del Ricordo dedicato alle vittime delle foibe. Ebbene, ora il senatore di FdI (ex Msi, An, Pdl e Futuro e Libertà) si è accorto che nella nostra Costituzione manca un articolo che chiarisca quale sia la lingua ufficiale dell’Italia: «Un vuoto che va colmato», osserva il parlamentare nel testo che presenta la proposta. Si sa mai che un domani qualcuno si svegli e decida di sostituire nelle scuole l’insegnamento dell’italiano con quello del francese, o peggio ancora dell’arabo.
Secondo Menia, la lingua di Dante – che, lo ricordiamo, è considerato dai meloniani il padre della cultura di destra – è minacciata dal «fenomeno migratorio», che «pone nuove questioni», fra le quali il «mantenimento» e la «difesa dell’identità italiana delle nostre città e Paesi». Insomma, per il senatore gli immigrati, oltre a rubarci il lavoro, sono pronti anche ad azzerare la nostra lingua per soppiantarla con qualcuno dei loro idiomi tribali.
Ma il patriota di Pieve di Cadore è allarmato soprattutto per ciò che avviene in certi territori di confine del Nord Italia, dove è riconosciuto il bilinguismo: «In alcuni casi – scrive – elementi di protezione avanzata delle minoranze nazionali o linguistiche diventano strumento per l’imposizione di un monolinguismo nella toponomastica che cancella l’italiano». «In altri casi – prosegue, lanciando una frecciata agli alleati della Lega – orientamenti autonomisti esasperati pongono situazioni in cui si tende a valorizzare la lingua o il dialetto di comunità minoritarie in antitesi alla lingua comune». Ecco quindi la proposta di legge costituzionale, composta da un unico articolo: «L’italiano è la lingua ufficiale dello Stato. Tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerlo e il diritto di usarlo». Precetto condivisibile, per carità, ma abbastanza superfluo, dal momento che già oggi gli stranieri che richiedono la cittadinanza devono superare un test di italiano.
Il ddl Menia è in attesa di essere discusso dalla Commissione Affari costituzionali del Senato. Nell’omologa commissione della Camera, invece, giacciono ben due proposte di legge per la salvaguardia della lingua, entrambe presentate a fine dicembre dal vicepresidente di Montecitorio, Fabio Rampelli, già segretario della sezione del Fronte della Gioventù di Colle Oppio a Roma, quella da cui proviene Meloni. I due ddl sono molto simili fra loro, solo che uno è di natura costituzionale, mentre l’altro si ferma alla legge ordinaria.
Anche Rampelli vuole far scrivere sulla nostra Carta fondamentale che «la lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica»: nella relazione che accompagna uno dei due testi parla di «foresterismi» (li chiama proprio così) che rischiano di «portare a un collasso dell’uso della lingua italiana fino alla sua progressiva scomparsa». Ma rispetto a Menia, il vicepresidente della Camera si spinge oltre, volendo vietare l’utilizzo di parole straniere negli enti pubblici e privati, nelle aziende, nelle scuole e nelle università. E prevedendo, per chi sgarra, una sanzione amministrativa che va dai 5mila ai 100mila euro.
Sembra di essere tornati negli anni dell’italianizzazione imposta dal regime fascista, quando il «pullman» bisognava chiamarlo «torpedone» e non si poteva dire «cocktail» ma solo «bevanda arlecchina». Ma la beffa clamorosa, per questi patrioti del terzo millennio, è che, mentre loro si adoperano per proteggere la purezza dell’italiano, il Governo Meloni ha istituito, per tutelare le eccellenze nazionali, un ministero del «Made in Italy» e ha annunciato la prossima istituzione di un «liceo del Made in Italy», nonché un finanziamento da 10 milioni di euro per il campionato di calcio, che dall’anno prossimo, all’estero, si chiamerà «Serie A Made in Italy». Poveri patrioti: non si poteva semplicemente usare la locuzione nostrana «fatto in Italia»?
Come noto, l’italiano discende dal latino. E, come altrettanto noto, i Fratelli d’Italia nutrono grande ammirazione per i nostri antenati romani. Ecco allora che un manipolo di senatori, la maggior parte dei quali meloniani (tra cui il già citato Menia), si è premurato, lo scorso 10 maggio, di depositare una nuova proposta di legge per valorizzare il liceo classico, la scuola per eccellenza in cui si insegna la lingua di Virgilio. La prima firmataria del ddl – per la precisione – è un’esponente che oggi fa parte del gruppo Noi Moderati: la casalese Giovanna Petrenga, che peraltro alle ultime politiche si era candidata con FdI.
I senatori propongono di introdurre nei licei classici l’insegnamento di nuove materie, quali archeologia, editoria, informatica, una seconda lingua straniera, antropologia culturale, economia politica, diritto costituzionale, amministrativo e internazionale.
Nelle intenzioni dei proponenti, questa novità dovrebbe rivitalizzare l’indirizzo classico, sempre più spesso snobbato dagli adolescenti italiani. Un tema per nulla secondario, secondo Petrenga e colleghi: «Nuove generazioni di laureati italiani non sono in grado di leggere il significato di una scritta in latino su un monumento al contrario di molti loro coetanei stranieri», si legge nella relazione che accompagna il ddl.
E ancora: «I numeri non alti delle iscrizioni di studenti al liceo classico, indirizzo di studi che più degli altri rappresenta un baluardo per la difesa dell’identità e dei valori occidentali, celano una questione di grande rilevanza, una enorme criticità: una diminuzione della preparazione culturale generale delle nuove generazioni e, conseguentemente, una loro minore capacità di analisi e comprensione della realtà che li circonda».
Secondo i “patrioti senatori”, tuttavia, «per far comprendere l’importanza educativa del liceo classico non è sufficiente unicamente un intervento legislativo: è importante un coinvolgimento dell’Unesco per valorizzare gli studi classici e le lingue latina e greca, facendole includere nella lista dei beni culturali immateriali».
Parole che stridono con la tesi ribadita più volte dal ministro dell’Istruzione e del Merito del loro stesso governo, il leghista Giuseppe Valditara, il quale sostiene che sia «necessario superare il concetto novecentesco di intelligenza e la concezione gentiliana di scuola che vedeva la piramide scolastica con il liceo classico in cima, seguito dal liceo scientifico e infine dagli istituti tecnico-professionali».
Cosicché, in fin dei conti, se ne può dedurre che ciò che differenzia Lega e Fratelli d’Italia è una sillaba: da «Prima l’Italia» a «Prima l’italiano».