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Donne d’Ucraina, Monica Perosino a TPI: “Sono il collante sociale che tiene unito il Paese in guerra”

Il suo è un romanzo-verità e la prima protagonista è ovviamente l’Ucraina. Ci racconta il momento in cui ha capito o, come scrive, ha “sentito” cos’è questo Paese?
«Ho avuto varie epifanie, grazie al privilegio giornalistico di essere stata in Ucraina sia prima che dopo lo scoppio della guerra. Nella capitale Kiev ho parlato con i giovani figli di Euromaidan, quando all’invasione ancora non credeva nessuno, nemmeno io. Ho incontrato le “babushke” (letteralmente “le nonne”, ndr) nell’oblast di Chernihiv, vicino ai confini con Russia e Bielorussia, e poi la popolazione russofona – non russofila – di Kharkiv. Ho toccato con mano tradizione e futuro di un Paese che convive da un anno con un conflitto e che il 24 febbraio 2022 ha subito un’invasione su larga scala».

E la popolazione russofila?
«L’ho cercata ma non l’ho trovata. Ho incontrato tanti russofoni nel Donbass ucraino ma nessuno che si dicesse contento dell’arrivo dei russi, anzi. Tutti sono rimasti esterrefatti dall’aggressione di Putin, soprattutto coloro che – e sono tanti – hanno ancora parenti e amici in Russia. Tra gli anziani, soprattutto nell’area di Kharkiv, ho visto dei “nostalgici” dell’Unione sovietica, persone che rimpiangono soprattutto la propria giovinezza e che magari a quei tempi erano dirigenti di apparati del Partito o avevano posti di rilievo in aziende di Stato o istituti di ricerca. Ma dopo il 24 febbraio 2022 anche loro hanno cambiato totalmente idea».

Non ha ravvisato sintomi di discriminazione?
«Quando mi trovavo a Bakhmut, dove già erano arrivati sia i russi che i mercenari di Wagner, chiesi a qualcuno della popolazione rimasta perché non fosse fuggita verso Ovest, visto che la città rischiava di fare la fine di Mariupol. Molti mi spiegarono che in primis era una questione di soldi: serve molto denaro per riuscire a sopravvivere lontano da casa, soprattutto se non si vuole finire nelle tendopoli destinate agli sfollati. Altri invece mi dissero che avevano paura perché nelle grandi città occidentali e nella capitale chi arriva dal Donbass è visto come parte di una popolazione sempliciotta e ignorante. Una forma di pregiudizio simile a quella che conosciamo in Italia verso i meridionali, ma ho respirato un senso di grande solidarietà umana e generosità».

È un Paese assediato quindi, ma è anche spaccato?
«Prima della guerra, parlare o essere russo o ucraino in una città come Kiev non aveva alcuna importanza. L’integrazione e il bilinguismo erano totali: ho visto persone domandare qualcosa in una lingua e rispondere nell’altra. Tanti autori pubblicavano i propri scritti in russo senza alcun problema, pur vivendo in Ucraina. Ma dopo l’invasione gli ucraini sono più uniti che mai. È l’effetto della guerra».

Ci fa un esempio?
«Mi ricordo di una signora, Valentina, di Nikopol. Russa di nascita, si era trasferita in Ucraina dove aveva sempre parlato in russo, non conoscendo altra lingua. Dal 24 febbraio 2022 ha smesso di parlare. Ha cominciato a seguire dei corsi di ucraino e da allora usa soltanto quelle poche parole che ha imparato. Parla poco ma parla solo ucraino. È stata una sua scelta di resistenza culturale».

Cos’è la resistenza per gli ucraini?
«Questo conflitto mi ha spinto a interrogarmi sul concetto di resistenza. Ho sempre guardato alla nostra Resistenza (contro il nazifascismo) e ai Partigiani come a un’epopea eroica. Quando ti trovi in una situazione come quella ucraina, guardi come reagiscono le persone attorno a te e pensi se anche tu avresti il coraggio di combattere, morire, perdere la casa, un braccio o i tuoi stessi figli in nome della libertà. Agli inizi dell’invasione, ho visto ragazzine brandire delle asce promettendo di difendersi contro i soldati russi. Con le dovute differenze storiche, anche se non tutti sono d’accordo, ritengo un’ingiustizia non considerare la resistenza ucraina una vera resistenza».

Lei non usa quasi mai la parola “vittime”.
«Indubbiamente il popolo ucraino è vittima di questa guerra ma nonostante le atrocità, le torture, gli stupri, le persone incarcerate negli scantinati, ho visto una tale voglia di autodeterminazione e di resistenza con ogni mezzo possibile da non riuscire ad associare a queste persone alcun senso di sconfitta. Non mi riferisco solo a chi parte per il fronte ma anche alle nonne che resistono all’orrore della guerra cucinando biscotti per i vicini con l’ultima farina rimasta. O alla madre che mi ha raccontato di essere stata stuprata da alcuni soldati russi: ci teneva a dirmi che quello non era solo il suo dolore ma il dolore di tutti e che tutti dovevano conoscere questo crimine di guerra».

Nel suo racconto è circondata da donne: volontarie, profughe, contadine, fotografe, combattenti. Qual è il loro ruolo in questa guerra?
«Mi sono resa conto di aver raccontato soprattutto storie di donne soltanto quando ho finito di scrivere il libro. Il motivo è duplice: in primo luogo sono le donne il vero nerbo che tiene insieme una società. Creano una trama sociale, un sostrato che unisce un Paese. In secondo luogo, sono protagoniste di una resistenza a tutto tondo, una battaglia diversa, più silenziosa, lontana dai primi piani e dai servizi televisivi interessati soprattutto alla prima linea del fronte. Senza nulla togliere a chi rischia la vita in trincea, dimostrando tutto il coraggio del mondo, le donne combattono con una consapevolezza diversa rispetto agli uomini. Non temono di ammettere di avere paura, non se ne vergognano e per questo riescono a resistere anche senza fiammate di testosterone. In più, senza le donne che da mesi stanno tornando nelle zone di guerra la trama che tiene unito il Paese si sarebbe già disfatta».

Vista da lontano, la guerra sembra aver “stancato” l’opinione pubblica.
«Tutti purtroppo siamo stufi di sentire sempre le stesse cose e preferiamo girare lo sguardo da un’altra parte. Ma anche la popolazione ucraina è stremata, l’unica differenza è che loro non hanno altra alternativa che resistere».

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, cosa significa la pace per gli ucraini?
«Tutti gli ucraini che ho incontrato nell’Est, nell’Ovest, nel Nord e nel Sud del Paese – compresi coloro che sono fuggiti all’estero per non imbracciare le armi – mi hanno dato una sola risposta: l’unica pace accettabile è il ritiro immediato da tutti i territori occupati dalle truppe russe, Crimea compresa. Senza sfumature. È una reazione comprensibile, soprattutto dopo un anno e mezzo di distruzioni e atrocità. Soprattutto, gli ucraini sanno bene cosa significa vivere sotto una dittatura e non accetteranno mai un compromesso che preveda la cessione di territori alla Federazione Russa».

Tra ricostruzione, sminamento, processi ai criminali di guerra, ritorno dei profughi e dei deportati in Russia, ci vorranno decenni per guarire le ferite di questa guerra.
«Purtroppo e forse per interesse si comincia già a parlare di ricostruzione quando la priorità dovrebbe essere far tacere le armi. Ma probabilmente questo processo coinvolgerà diverse generazioni. Quello che mi preoccupa di più però non è tanto la ricostruzione materiale ma il ripristino delle relazioni umane tra due popoli da sempre legatissimi. Per fortuna, soprattutto tra le donne ucraine che ho incontrato, non ho ravvisato propositi di vendetta ma solo di giustizia. Tutto questo malgrado l’opera di Putin che sta fomentando l’odio tra le persone. Ed è proprio qui che volevo arrivare».

Dove?
«Con questo libro volevo raccontare cos’è una guerra da dentro, lontano da generali ed esperti militari e vicino alle persone che la vivono, anche per contribuire, citando il Premio Nobel Svetlana Alexievich, a generare una sorta di disgusto, di senso di irrazionalità e di orrore di fronte a un fenomeno così brutale e insensato come un conflitto armato. Spero che, più ne parliamo, più proviamo ribrezzo e prima troveremo un’alternativa a qualcosa che è totalmente inumano».

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