«Tra nuove Ztl e costo dei biglietti alzati si prepara la guerra civile». «E 20 anni di governo di destra». Due studenti di circa 20 anni dialogano davanti al rettorato dell’Università Sapienza di Roma. Vengono da altre zone d’Italia o province del Lazio, discutono del rincaro delle utenze o del costo dei mezzi pubblici come fossero lavoratori in pausa caffè. Il motivo è che alcuni dei problemi che li affliggono – affitti troppo alti, salari bassi, stagnazione e inflazione – li accomunano alla generazione dei loro genitori, ai lavoratori precari e ai movimenti per il diritto alla casa, che non a caso nei giorni in cui gli universitari hanno animato la “protesta delle tende” davanti al rettorato, si sono uniti alla mobilitazione, organizzando vari pellegrinaggi verso piazza Aldo Moro. Insieme hanno manifestato contro il prezzo degli affitti in Italia, dove nelle principali città una stanza arriva a costare oltre 500 euro, spese escluse, e un bilocale di 70mq più di 1.100 euro. Un problema che riguarda 40mila fuori sede nella sola città di Roma e circa 591mila studenti universitari in tutta Italia, ma anche le famiglie che spendono per la casa una quota uguale o superiore al 40 per cento del proprio reddito: quasi 2,5 milioni secondo i dati Istat. Elisa ha quasi 20 anni, è iscritta alla facoltà di scienze politiche ed è originaria dei Castelli Romani. Ha i capelli neri e lunghi, un sorriso timido, indossa un trench e occhiali da vista spessi. Fa parte di quel gruppo di giovani a cui alcuni commentatori, nei giorni in cui il dibattito sul costo della vita dei fuorisede ha conquistato i palinsesti televisivi, hanno suggerito di non lamentarsi e di adattarsi alla vita da pendolare. Elisa ci ha provato, ma è stato un inferno. «Alla fine del primo semestre ho vissuto un momento di grande sconforto».
Studenti a metà
Abitare ai Castelli Romani, a un’ora di macchina dal raccordo anulare che circonda la città, significa impiegare due ore per tornare a casa utilizzando i mezzi pubblici. «Le linee saltano e non sono frequenti. E io abito sulla cima di una montagna», prosegue. Così ha provato a cercare casa a Roma con altre due persone, ma senza successo. «Non ci sono, se ci sono si trovano in periferia e non ne vale la pena, perché sono catapecchie e costano troppo per il luogo in cui sono posizionate. In centro sono improponibili. Una stanza costa tra i 500 e i 600 euro, poi dobbiamo metterci le spese. Non è fattibile con i lavori che facciamo». Elisa nei fine settimana fa la cameriera in un ristorante di Rieti, ma quello che guadagna, pur integrando il reddito complessivo della famiglia, non è abbastanza per trasferirsi in città. Intanto la vita da pendolare ha avuto un impatto negativo sulla qualità del suo studio. «Uno dei corsi che seguo finisce il mercoledì alle otto di sera. Da qui ci metto dieci minuti ad arrivare alla stazione. Sono obbligata a prendere l’ultimo treno delle nove. Arrivo a casa alle 11. Il giorno dopo devo svegliarmi alle cinque di mattina per stare di nuovo qui alle otto. Non ho la frequenza obbligatoria, ma non frequentare mi fa perdere motivazione. Dall’altro lato trascorrere così tante ore sui mezzi significa avere poco tempo da dedicare allo studio, al massimo cinque ore al giorno». Lo scorso anno ha superato il suo momento di crisi appoggiandosi a casa del fidanzato, che abita a Roma. Ma non tutti gli studenti o studentesse hanno una persona di fiducia in città. Per questo Elisa ha deciso di partecipare alla protesta contro il caro affitti organizzata dai collettivi. Il suo è quello collegato alla Rete degli Studenti Medi, sindacato scolastico della Cgil, di cui ha aperto una sezione a Rieti perché nel paese «la situazione era spenta». Si definisce di sinistra e ha accolto con speranza l’elezione della neo segretaria del Pd Elly Schlein, che ha fatto visita agli studenti durante i giorni del sit in. Lei non l’ha contestata, perché si augura che possa fare buona opposizione e possa rappresentarla. Ma crede anche che le rivendicazioni degli studenti debbano essere prese in carico prima di tutto dall’attuale governo. «Chiediamo risposte a loro: é inutile che il ministro ci risponda: “La sinistra è stata al governo e non ha fatto niente”».
Contro un sistema da cambiare
Per altri studenti coinvolti nella mobilitazione, invece, le responsabilità della sinistra nel creare la situazione contro cui protestano non possono essere ignorate. «Non ci dimentichiamo che è stato un governo di sinistra a varare la legge 431 del 1998, che ha abolito di fatto l’equo canone, concedendo ai privati piena discrezione nello stabilire i prezzi, in base alle loro necessità», spiega Elettra, del collettivo “Cambiare rotta”, la giovanile della Rete dei Comunisti nata due anni fa dopo la protesta “Noi restiamo”, che lavorava sulla contraddizione della “fuga dei cervelli”. La legge precedente a quella del 1998 (la 392 del 1978) stabiliva che il valore locativo degli immobili fosse calcolato in funzione di alcuni parametri e coefficienti, come il tipo di immobile, il piano, lo stato di conservazione, la zona o la dimensioni della città. Oggi gli affitti e il valore degli immobili sono gestiti quasi completamente dal mercato libero, con regolare aumenti dei prezzi. E l’Italia rimane uno dei paesi dell’Ocse meno regolamentato, come spiega a Tpi Andrea Roventini, professore ordinario di economia politica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e research fellow all’Ofce, Sciences Po (Francia). «L’Italia è un Paese che difende chi ha asset o proprietà. I rentier sono gli unici che beneficiano del modello in cui viviamo, un modello non più produttivo dinamico, ma che semplicemente estrae rendite. Mancano interventi legislativi e di regolamentazione forte per calmierare gli affitti, come stanno facendo gli altri Paesi occidentali. Manca una legge che regolamenti gli affitti Air b and b come quella che c’è in Francia o in altri Paesi, non si vuole far pagare più tasse ai proprietari che lasciano le case sfitte, come succede per esempio in Inghilterra o in Catalogna, dove addirittura si sta ipotizzando di confiscare le case sfitte. In Italia c’è una discussione surreale, in cui l’unica cosa che si pensa di fare è dare soldi ai rentier, che già godono di un trattamento di favore con la cedolare secca, che costa allo Stato più dell’evasione che fa emergere».
Agli studenti non sfugge che il problema degli affitti fa parte di un corollario di difficoltà più ampio, figlio di un modello economico e sociale che genera disuguaglianze, di cui l’università rappresenta solo la cartina al tornasole. «Oggi l’università vive una profonda crisi perché il ruolo sociale che ha avuto dopo gli anni 60 si è perso. Non ha più quella funzione di ascensore sociale, è diventato un mero esamificio, frequentiamo per dare esami e siamo circondati da questa retorica del merito, della competizione, della sfrenata corsa. Inoltre sono cambiate le condizioni materiali per cui per molti la prospettiva dopo la laurea è quella di fare la cameriera per tre euro e cinquanta l’ora. Noi giovani stiamo vivendo in un limbo, in un momento in cui le disparità sociali si stanno acuendo», spiega Elettra, che ha 21 anni e studia pedagogia. Proprio la facoltà che ha scelto la rende critica verso il sistema scolastico e universitario che vive, e non guarda al futuro con fiducia. Vota Potere al Popolo perché «si è posto subito degli obiettivi di rottura con le politiche portate avanti negli ultimi 30 anni, e porta avanti una serie di istanze che difendono la dignità di cui noi parliamo, per esempio la proposta di un salario minimo di dieci euro l’ora, e si è molto affacciata al percorso che stanno facendo in Francia». Un percorso a cui guarda con speranza. «Il grande risultato di quelle proteste è che da una legge, quella per le pensioni, si sia andati a rivendicare istanze per cambiare una società che ha qualche meccanismo che non va bene».
Figli della stessa rabbia
Ne è convinto anche Massimo, studente di filosofia di 22 anni, che vorrebbe che la protesta degli affitti avesse lo stesso effetto di riunire più fasce della popolazione, movimenti e rivendicazioni, dal salario minimo alla pace. «Le dinamiche che affamano le classi popolari, le escludono e le tagliano fuori, hanno tutte una stessa radice. Per questo bisogna protestare contro il modello di società», dice a Tpi mentre all’interno del rettorato si sta svolgendo il tavolo politico convocato dalla Rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, che gli studenti hanno chiesto dal primo giorno di mobilitazione, a cui hanno partecipato i rappresentanti di Sinistra Universitaria e di altri collettivi (Unione degli Universitari, Link, UniRete Tor Vergata, Studenti alla Terza, Percorso UniTuscia), i rappresentanti dei rettori delle università del Lazio, l’assessore all’Università della Regione Lazio Giuseppe Schiboni e il sindaco di Roma Roberto Gualtieri.
Massimo crede che lo scontento debba uscire dalle mura dell’ateneo. Ricorda il brano “Figli della stessa rabbia”, della Banda Bassotti, da cui prende il nome il percorso che il suo collettivo, “Cambiare rotta”, ha portato avanti a partire dall’anno scorso «con l’obiettivo di unire le lotte studentesche a quelle dei lavoratori che hanno cominciato a protestare contro l’invio delle armi, bloccando gli aeroporti di Pisa e di Genova». «Unirsi è fondamentale, gli universitari pagano caro il prezzo di questa situazione come lo pagano tutti. Non è solo una solidarietà che si porta in piazza con due interventi, significa avere percorsi intrecciati. Per questo da anni partecipiamo ai picchetti anti sfratto con l’Unione sindacale di base per gli inquilini Asia Usb. E parteciperemo allo sciopero generale del 26 maggio “Abbassare le armi, alzare i salari”, indetto dal sindacato». Una scelta che ha portato a discutere con gli altri collettivi. «Abbiamo provato a spiegare che fare questo percorso senza rientrare in uno sciopero generale in una situazione come questa, in cui tra inflazione e carovita la classe lavoratrice è affamata e paga la crisi come non mai, nell’unico Paese in cui i salari reali sono diminuiti negli ultimi 30 anni, vuol dire far perdere qualsiasi tipo di senso alla mobilitazione. Parlare della questione del caro affitti è impossibile senza parlare di guerra, politiche nazionali, leggi, mercato liberalizzato. Tutte rivendicazioni che sono immediatamente più sindacali ma che dietro nascondono la lotta per un diverso modello di società», conclude.
Uniti contro lo sfruttamento
Lo sfruttamento e il precariato che Massimo e i collettivi denunciano riguarda i lavoratori stessi della Sapienza, che nei giorni in cui gli universitari hanno allestito le tende di fronte alla Minerva, sono stati protagonisti di un’altra mobilitazione. Quella dei circa 50 addetti alla vigilanza non armata dell’Università, che a partire da luglio del 2022, a causa di un cambio di appalto della ditta erogante i servizi, si sono visti abbassare i salari di 2.000 euro l’anno, nonostante la clausola sociale che avrebbe dovuto impedire tale riduzione. Da un contratto multiservizi sono passati a un “contratto per servizi fiduciari”. «Alla diffida intrapresa dal sindacato Cobas e dai lavoratori, sono seguite minacce da parte del personale incaricato dell’Università, trasferimenti e soppressioni di postazioni lavorative», racconta a Tpi Giacomo Liverani, del Coordinamento collettivi universitari, che insieme a ricercatori, dottorandi, sindacalisti ed esponenti di Potere al Popolo ha dato vita al comitato “Lavoratori e studenti contro lo sfruttamento”, per supportare la causa dei vigilanti e degli altri dipendenti che rischiano di perdere il lavoro a causa dei cambi di appalto. «Abbiamo avviato una lotta il 4 maggio, organizzando un’assemblea pubblica nella facoltà di Giurisprudenza, per poi trasferirci qui al rettorato. Grazie a questa iniziativa si è arrivati a un incontro con la direzione amministrativa l’11 maggio», spiega ancora Liverani. La Direzione Generale dell’Amministrazione della Sapienza ha assicurato che sulle minacce subite – contro cui i lavoratori hanno presentato ricorso giudiziario – «l’Amministrazione dell’Ateneo ha istituito una Commissione di verifica interna per l’accertamento dei fatti» e, in una nota inviata a diverse testate, precisato che «gli aspetti retributivi e la dislocazione delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti della società vincitrice dell’appalto dei servizi di portierato e guardiania presso Sapienza Università di Roma, non sono e non possono essere stabiliti dall’Amministrazione dell’Ateneo», perché le retribuzioni e la dislocazione dei dipendenti di società esterne affidatarie di servizi sono definite contrattualmente dalle società stesse. Ma secondo il comitato il problema sta proprio nelle esternalizzazioni, che rappresentano per l’ateneo «un costo gigantesco». «Tutti quei soldi dovrebbero essere impiegati in welfare universitario, che invece adesso viene dismesso», commenta a Tpi Iacopo Chiaravalli, ricercatore ed esponente di Potere al Popolo. «Siamo di fronte a un modello di università-azienda in cui gli studenti e le studentesse sono dei numeri e i lavoratori e le lavoratrici sono erogatori di lavoro su cui risparmiare. Gli studenti si spremono in termini di tasse sempre più alte e finanziano un mercato privato fuori dall’università, mentre sui lavoratori e le lavoratrici si taglia. Questo è il modello di base, che riflette quello generale, perché l’università non sta dimostrando la capacità di produrre un’alternativa, uniformandosi agli standard di adeguamento al mercato e al profitto». «Il modello cerchiamo di proporlo noi – conclude Liverani – speriamo che a qualcosa porti».