Nella feroce battaglia contro l’”egemonia politica e culturale” che la sinistra avrebbe esercitato sulla cultura, l’informazione, la Rai e chissà dove ancora, il governo Meloni procede spedito al rinnovo di consigli di amministrazione, direzioni editoriali e amministrative, soprintendenze di teatri e musei, vertici di istituzioni artistiche e culturali. In casa Rai vanno e vengono manager e giornalisti, vallette e stelline. Carlo Fuortes, amministratore delegato della tv pubblica, lascia e non andrà a dirigere il Teatro San Carlo di Napoli, una specie di consolazione, anche perché il collega francese Stéphane Lissner, già alla Scala di Milano, organizza barricate per difendere il posto sotto il Vesuvio. L’addio di Fabio Fazio, che l’ex presidente della Rai, Paolo Garimberti, definì niente di meno che il «nostro David Letterman», e di Luciana Littizzetto che trovano rifugio dagli yankee di Discovery riempie i giornali, suscita polemiche, scontri politici. Se ne va Fazio dopo quasi quarant’anni, e allora? Cosa succederà se lascerà Bruno Vespa che c’era già nel dicembre 1969 quando in Rai passavano le “veline” che accusavano l’anarchico Pietro Valpreda di aver messo la bomba in Piazza Fontana? L’opposizione dovrebbe immolarsi per il presentatore di Savona? E se a Saxa Rubra arrivano il ciuffo di Porro e il filosofo Del Debbio da Retequattro, o Pino Insegno in quota Meloni e Monica Setta in quota Salvini, oppure una neofita del giornalismo di destra che sui social si mostra col culo fuori, la democrazia sarà in pericolo?
Funziona così. L’Italia è un Paese che vota a destra, mentre l’editoria, l’informazione, l’università sono considerate in mano o influenzate dai progressisti. Vecchia storia, basta ricordare certi articoli indignati del professor Galli della Loggia sul Corriere della Sera contro i comunisti dell’Einaudi. Oggi la destra trionfante si sente legittimata a occupare le imprese di Stato (Eni, Enel, Leonardo, Poste, Terna sono già state sistemate), e poi la Rai, scegliere direttori, giornalisti, caporali fedeli. Poi musei, teatri, festival e sagre varie. Ecco le falangi per contrastare l’egemonia comunista che ammorba spettacoli, arte, cinema, informazione, come sosteneva Silvio Berlusconi, già promotore del cosiddetto “editto bulgaro” con il quale silurò Enzo Biagi, un vero moderato. Il segno del potere per una maggioranza politica, di ogni colore, è avere in mano la Rai, dove i “trombati” magari restano fermi un giro, stipendi e benefit garantiti, salvo poi riemergere alle prossime elezioni oppure cambiare casacca e riposizionarsi. Tutti teniamo famiglia.
Nella sua prima intervista, il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, già direttore del Tg2, delineò sul Giornale il suo piano contro «l’egemonia culturale della sinistra» e contro il «politically correct»”. Una fissazione, come quell’idea pericolosa dell’etnia italiana sostenuta dal ministro Lollobrigida. Di fronte all’offensiva delle truppe meloniane, non si vede la reazione del Pd. Un po’ d’indignazione, battaglia culturale zero. Gli ex grillini assenti. Mai sentita Elly Schlein difendere o argomentare la presunta egemonia di sinistra, eppure Antonio Gramsci continua a essere studiato in America. Invece di scimmiottare Terze o Quarte vie, si potrebbe guardare al patrimonio di idee e di lotte della sinistra italiana, non per nostalgia ma perché non c’è nulla di cui vergognarsi. Anzi. A metà degli anni Settanta, quando uscirono in edizione critica e completa i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci le università si dedicarono all’approfondimento di un’opera fondamentale per la storia del Paese. Niente ghigliottine o assalti al Palazzo d’Inverno. Un comunista, morto nel 1937 per le pene patite sotto il fascismo, pensava all’emancipazione della classe operaia, all’egemonia attraverso la cultura, il consenso, gli intellettuali, il partito, la scuola, il lavoro. Oggi se la battaglia politica e culturale del Pd si riduce a Fazio, improbabile vittima del sistema, siamo finiti. Coraggio, voltate pagina. Dite qualcosa.