Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è forse il leader più simbolico della prima parte del ventunesimo secolo. Negli ultimi due decenni ha cambiato volto al suo Paese consolidando uno stile politico antesignano di numerose demagogie nazionaliste in varie parti del mondo. Sotto il suo mandato è emersa la rappresentazione di un sistema clientelare fatto di pietra e cemento alimentato da un boom edilizio che ha investito la Turchia intera.
Un sistema clientelare
Due crisi principali hanno svolto un ruolo nel successo di Erdogan. La prima fu la crisi finanziaria, risultato di decenni di corruzione e inefficienze – in cambio di un salvataggio da 19 miliardi di dollari, la Turchia accettò un programma di privatizzazione delle compagnie di Stato, scartando però le iniziative anti-corruzione. L’altra fu il terremoto del 1999, che uccise 17mila persone causando la disillusione del pubblico verso i partiti. In seguito il governo approvò una tassa speciale per riparare i danni e ristrutturare gli edifici ancora vulnerabili ai terremoti. La tassa doveva essere una misura temporanea, ma il partito di Erdogan, l’Akp, la rese permanente, accumulando miliardi di dollari e utilizzando il denaro per finanziare la costruzione di autostrade, ponti e altri progetti infrastrutturali che, secondo lui, avrebbero reso la Turchia un Paese moderno.
Qui però una quantità sostanziale di terreni appartiene ai ministeri. Quando un partito sale al potere, ha accesso al suolo pubblico e può occuparlo per costruirci centri commerciali ad esempio e trarne enormi profitti. Il denaro viene poi distribuito a impiegati statali, politici locali, dipendenti pubblici e membri del partito. In pratica, è come fare soldi dal nulla. Il settore edilizio era una parte centrale della visione di Erdogan per una nuova classe media moderna guidata dai consumi. Per accelerare la costruzione degli edifici, l’Akp continuò ad affidare l’ispezione dei progetti ad aziende private. Il boom edilizio turco fu, per molti versi, efficace. Allora l’Economist promuoveva il “modello turco” scrivendo che il partito al governo aveva «conferito una nuova immagine al Paese e dimostrato che l’arrivo al governo di persone religiose non doveva per forza di cose rappresentare una rottura drastica con l’Occidente», mentre il Brookings Institute definiva la Turchia «l’esperimento più dinamico dell’Islam politico tra le 57 nazioni del mondo musulmano».
Disastri o opportunità
Tra il 1999 e il 2022, la Turchia, situata all’intersezione di tre placche tettoniche continentali – anatolica, araba e africana – è stata colpita da cinque terremoti devastanti. Durante il primo, quello del 17 agosto 1999 nel Mar di Marmara di magnitudo 7,6, i media turchi presero di mira le autorità con veemenza. La distruzione, sostenevano, era la conseguenza evitabile di un governo corrotto in combutta con gli imprenditori edili. Le testate attaccavano il premier, i suoi ministri, e il loro regime: «Assassini», «Ministro della Salute: taci», «Il collasso dello Stato», titolavano i quotidiani nazionali.
L’Akp, salito al potere grazie all’insoddisfazione verso la “vecchia Turchia” e la crisi economica che il terremoto accelerò due anni più tardi, si è però dimostrato un abile manipolatore dei media. A partire dal 2009, ha utilizzato i prelievi fiscali per punire le reti di informazione che lo criticavano, ha speso fondi governativi per mettere pressione ai giornali e ai canali televisivi e licenziare i giornalisti dell’opposizione, e ha censurato il giornalismo investigativo. Negli ultimi cinque anni il partito ha fatto ricorso a tattiche più spontanee, come l’irruzione fisica nelle redazioni dei giornali e consegnando i canali di informazione a persone fidate.
Controllando oltre il 90 per cento dei media turchi, l’attuale regime brandisce un enorme potere sui cuori e le menti della popolazione. Su Cnn Türk, i commentatori parlavano degli ultimi terremoti come di un evento metafisico, dissociandoli dalle politiche economiche e sociali perseguite dal governo negli ultimi vent’anni. Il 9 febbraio, tre giorni dopo il doppio terremoto più forte mai registrato sulla terraferma, un reporter dell’emittente nazionale Trt dichiarava che l’Akp avrebbe commissionato in poco tempo a dei tycoon la costruzione di enormi complessi residenziali per i sopravvissuti, trasformando il disastro in opportunità. Gli esperti in tv parlavano degli standard di sicurezza di questi nuovi progetti, il cui completamento sarebbe previsto nell’arco di un anno, spiegando come il denaro delle tasse accumulate nei fondi di soccorso verrà distribuito dal governo a società edilizie «amiche». Nel frattempo, intere famiglie erano state decimate.
Indisturbati dagli avvertimenti sullo sviluppo edilizio senza freni e senza adeguati controlli ingegneristici, i funzionari della capitale di Ankara hanno dato ai politici locali sempre più potere di concedere licenze di costruzione per grandi progetti senza lo scrutinio di professionisti indipendenti. Il sistema di garanzie sulle norme degli edifici è stato compromesso dal denaro e dalla politica. Un sistema che dà precedenza alla velocità rispetto alle regole e alle competenze tecniche. I suggerimenti di base – che gli ingegneri civili debbano ad esempio superare degli esami di idoneità professionale – sono stati respinti. Al contrario, nel 2015 il governo di Erdogan ha denunciato l’Ordine degli ingegneri civili, impedendogli di creare dei propri certificati, più stringenti, per appartenere alla categoria.
Uno Stato svilito
Dopo aver privatizzato il processo di ispezione degli edifici, marginalizzato ordini di ingegneri e architetti che richiedevano maggiori controlli, e aver abrogato una legge che consentiva agli appaltatori di scegliere i propri ispettori nel 2019, il potere di superare certi potenziali cavilli burocratici per l’edificazione è rimasto in mano ai sindaci. Un’inchiesta del New York Times ha svelato come un costruttore ha ottenuto i permessi per un progetto dopo aver donato più di 200mila dollari a una squadra locale di calcio, di cui il sindaco è presidente onorario. In seguito, quando i residenti hanno fatto notare che i progetti non corrispondevano a ciò che era stato costruito, non hanno ottenuto nessuna spiegazione soddisfacente dal governo locale. L’ispettore edile ha dichiarato che, nonostante il progetto non avesse superato la sua ispezione, gli appaltatori avevano utilizzato le proprie influenze politiche per ottenere i permessi. Di quegli edifici oggi, restano soltanto le macerie.
La corsa all’edilizia ha trasformato una classe media di proprietari terrieri in imprenditori immobiliari e appaltatori, o con il dispregiativo turco “müteahhit”. Erdogan ha sfruttato il settore come volano per la crescita economica e simbolo del progresso del Paese. I politici locali di tutti i partiti hanno approfittato della creazione dei posti di lavoro, degli alloggi e dei pagamenti in nero che provenivano da questo sistema. Ma Il terremoto del 6 febbraio ha messo in luce le fondamenta deboli su cui poggiava la corsa al progresso della Turchia.
A molti è sembrato chiaro il nesso tra lo svigorimento dello Stato da parte di Erdogan e la disastrosa risposta all’emergenza. Dopo aver eroso l’indipendenza dell’esercito, ostacolandone la capacità di mobilitarsi rapidamente per far fronte a disastri, e aver paralizzato i poteri delle associazioni della società civile e delle municipalità, gli ultimi terremoti hanno messo in luce un doppio fallimento del governo: quello sulla prevenzione e sulla risposta alle emergenze – elementi già profondamente radicati nell’Akp da decenni e con cui il Paese dovrà fare i conti anche nel prossimo futuro.