Recep Tayyip Erdogan ha lasciato un segno indelebile in Turchia, diventando a tutti gli effetti il “padre” di un Paese che negli ultimi vent’anni ha subito profonde trasformazioni politiche, sociali e culturali. Il leader del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) ha rimodellato la Turchia sulla base di quei valori conservatori e religiosi che caratterizzano la sua visione del mondo, conferendo maggiore potere a una parte della popolazione – i cosiddetti “turchi marroni” – precedentemente marginalizzata in favore della componente laica più vicina agli ideali occidentali. In questo processo di trasformazione, Erdogan non ha lasciato nulla al caso, nemmeno il nome del suo stesso Paese.
La metamorfosi
Sotto la sua presidenza, la Turchia ha cambiato la denominazione internazionale in “Türkiye” secondo un’operazione di re-branding che mirava ad accattivarsi il sostegno della parte più conservatrice del Paese, ma anche a lanciare un chiaro messaggio all’estero. Il nome “Türkiye” rimanda chiaramente a un’identità nazionale declinata in senso ottomano, ben gradita da quegli elettori che apprezzano il protagonismo che la Turchia ha guadagnato negli ultimi anni nello scenario internazionale e che sono ben felici di questo rimando al passato glorioso dell’Impero. Quello stesso fasto che è stato spesso esaltato nelle serie tv prodotte in Turchia, diventate un utile strumento di propaganda e di revisionismo storico nelle mani di una classe politica che ha ben compreso quanto l’arte sia in grado di influenzare i cuori e le menti del pubblico, anche fuori dai confini nazionale. Le serie tv a tema storico hanno permesso a Erdogan di trasmettere i valori conservatori e religiosi, condannando invece quegli stili di vita non considerati conformi all’islam e censurati in vario modo negli ultimi vent’anni.
Nelle serie tv, per esempio, non c’è spazio per i riferimenti sessuali né per l’alcol, prodotto vendibile legalmente in Turchia ma che non è possibile pubblicizzare e su cui sono state applicate sempre più tasse per scoraggiarne il consumo. Questa mossa, trasformatasi in un vero e proprio divieto di consumo in uno degli ultimi lockdown per il Covid, è strettamente legata alla trasformazione culturale del Paese voluta da Erdogan. Uno dei prodotti tipici della Turchia è proprio il “raki”, bevanda a base di anice dall’elevato tasso alcolico consumata secondo un rituale che fa parte della storia e della cultura nazionale. Limitare l’accesso all’alcol – con un divieto ufficiale o con le tasse – è funzionale alla trasformazione che Erdogan ha cercato di imprimere negli ultimi vent’anni. Le serie tv sull’Impero ottomano e l’alcol sono diventate un’ulteriore linea di demarcazione tra la componente laica e quella religiosa, storicamente poco capace di mettere da parte le proprie differenze ma ancora più lontane l’una dall’altra dopo il ventennio di governo Erdogan.
Progressive restrizioni
Anche la musica si è trasformata in un terreno di scontro e in uno strumento di promozione dei valori conservatori e nazionalisti. Nella Turchia di Erdogan la censura delle canzoni è diventata la norma anche grazie all’operato dell’azienda radiotelevisiva di Stato, la Trt. A finire nella lista nera sono molto spesso canzoni in lingua curda che qui a Diyarbakir, capitale del Kurdistan turco in cui la figura di Erdogan è ben poco gradita, risuonano invece liberamente per la strada. Ad essere oscurate però sono anche quelle canzoni in cui si critica più o meno velatamente la figura del presidente o che promuovono valori e stili di vita non conformi a quelli propagandati dal governo. Tra questi rientrano a pieno titolo le canzoni che parlano di relazioni omosessuali o considerate pro-Lgbt, particolarmente invise a Erdogan. La censura però non è l’unico provvedimento preso contro gli artisti non graditi al governo. Il rischio maggiore è quello di finire in carcere, come successo per esempio al gruppo Yorum, formazione nota per le canzoni di stampo politico. Tre membri della band sono morti a seguito di uno sciopero della fame condotto in carcere in segno di proteste per il loro arresto. A inizio maggio aveva fatto invece scalpore l’arresto della cantante pop Gulsen, condannata per una battuta sulle scuole religiose islamiche frequentate dallo stesso Erdogan e già nel mirino del leader turco per i suoi commenti pro-Lgbt.
La satira d’altronde è stata sempre più limitata negli ultimi anni. Grazie a una serie di leggi via via più restrittive e a un aumento dell’autocensura, sempre meno artisti sono riusciti a portare in scena film, programmi o spettacoli satirici per paura di ricevere multe o di finire sotto processo per vilipendio contro la figura del presidente. Queste limitazioni sono state imposte con maggiore forza a partire dal 2013, anno delle famose proteste di Gezi Park, durante le quali l’arte e in particolare la satira hanno avuto un ruolo importante nel trasmettere messaggi contro il presidente e il suo governo. La repressione delle autorità non si è diretta solo contro i manifestanti, ma anche contro la forza creativa di un movimento che ha messo momentaneamente in pericolo la tenuta dello status quo e che ha saputo trovare nell’arte strumenti utili per ribaltare la propaganda governativa del decennio precedente. Dopo venti anni di Erdogan, però, anche questa declinazione della cultura turca è stata marginalizzata in nome dei valori conservatori e religiosi dominanti.
Arte conforme
Lungo lo stesso arco di tempo, la stretta del leader dell’Akp si è diretta contro il cinema e il teatro. I film che non rispettano la visione della società promossa da Erdogan e dal suo partito sono stati limitati nella loro diffusione nel Paese o addirittura censurati, in particolare quelli che trattavano tematiche Lgbt o dedicati alla minoranza curda. Attori e registri non graditi al governo sono stati marginalizzati, mentre altre case di produzione più vicine al governo sono riuscite a fiorire. Per Erdogan, il cinema è stato anche un utile strumento di autocelebrazione e di propaganda. Nel 2017, a pochi mesi dalla riforma costituzionale che ha trasformato lo Stato in una repubblica presidenziale, è uscito nelle sale “Reis” (letteralmente, capo), un film che racconta la vita di Erdogan dall’infanzia fino all’ascesa politica e realizzato da una casa di produzione, la Kafkasor Film Academy, con zero esperienza nel settore cinematografico ma in grado di spendere ben 8 milioni di dollari per questo particolare prodotto.
Negli ultimi vent’anni, Erdogan ha trasformato la cultura della Turchia creando una divisione netta tra quelle forme artistiche conformi agli ideali conservatori e religiosi del suo partito e quelle considerate invece “impure” e percepite come un pericolo per la tenuta dello status quo. Sotto il governo dell’Akp, la cultura turca è stata modellata a immagine del suo leader e dei suoi sostenitori, con un effetto polarizzante e divisivo all’interno della società che non sarà facile un domani sanare.