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La ricostruzione dell’Ucraina è l’affare del secolo e la Cina è in prima fila

La Cina è minacciosa con Taiwan, cerca la via del negoziato tra Ucraina e Russia, flirta con i Brics e antagonizza gli Stati Uniti, mentre gioca a “divide et impera” con i Paesi europei. Ma Pechino è pure in concorrenza, con gli Usa e l’Ue, per la ricostruzione dell’Ucraina dopo il conflitto: il che può contribuire a spiegare l’ottimismo sciorinato dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky dopo la telefonata del presidente cinese Xi Jinping.

A fare da sfondo alla lunga conversazione del 26 aprile, attesa per cinque settimane, dopo i colloqui di Xi a Mosca il 20 marzo con il presidente russo Vladimir Putin, c’era anche la capacità di Pechino di consegnare “chiavi in mano” ai suoi partner importanti infrastrutture, già ampiamente dimostrata in Asia e in Africa e nell’America latina.

Un cantiere già aperto
L’affare della ricostruzione dell’Ucraina, che si prospetta dopo la guerra, è enorme. Un’analisi fatta da Banca Mondiale, Nazioni Unite, Unione europea e governo ucraino calcola che ci vorranno 411 miliardi di dollari per rimettere in sesto e fare ripartire il Paese devastato dal conflitto. La stima è ovviamente provvisoria: la guerra è in corso, può durare ancora a lungo e causare ulteriori danni alle infrastrutture ucraine.

Una volta risolto il conflitto, l’Ucraina si prospetta come il più grande cantiere del XXI secolo: si contano a migliaia case, scuole, ospedali, fabbriche, infrastrutture – centrali, strade, porti, stazioni e linee ferroviarie – danneggiate, se non distrutte; solo a Kiev erano 348 fino al mese scorso. Facile evocare, come fa Zelensky, la necessità di una sorta di Piano Marshall.

Mentre sul campo di battaglia si continua a combattere e proseguono incessanti i bombardamenti aerei, con missili e droni, le organizzazioni internazionali prevedono un fabbisogno immediato di 14 miliardi di dollari da spendere nel 2023 in «investimenti critici e prioritari» destinati a ovviare alle distruzioni, prima di avviare la ricostruzione. In una nota, il premier ucraino Denys Shmyhal indica «cinque emergenze» da affrontare: le infrastrutture energetiche e altre infrastrutture critiche, gli alloggi, l’economia, lo sminamento.

Le stime, inoltre, non includono i dati «sulla perdita di infrastrutture, alloggi e attività commerciali nei territori occupati», cioè nel Donbass – dove c’erano le auto-proclamate “repubbliche filo-russe” di Donetsk e di Lugansk – e i territori di Kherson e Zaporizhzhia, annessi dopo i referendum farsa del settembre scorso. I territori occupati rappresentano circa un sesto dell’Ucraina pre-invasione e sono stati teatro delle battaglie più devastanti, da quella di Mariupol a quella in corso a Bakhmut. È, dunque, ipotizzabile che i danni lì siano mediamente superiori al resto del Paese e che il costo della ricostruzione avvicini o superi i 500 miliardi di dollari (c’è chi azzarda 750 miliardi di dollari in dieci anni).

Restando ai 411 miliardi calcolati dalle organizzazioni internazionali, essi sono 2,6 volte il prodotto interno lordo ucraino stimato per il 2022. La ricostruzione, avverte Anna Bjerde, vice-presidente della Banca mondiale per l’Europa e l’Asia centrale, «richiederà diversi anni»: oltre a ingenti investimenti pubblici, saranno necessari «significativi investimenti privati».
Il rapporto citato chiarisce che le stime sono parziali: «I bisogni continueranno a crescere finché la guerra proseguirà». Il conflitto, secondo l’analisi condotta, ha ridotto in povertà 7,1 milioni di persone, annullando 15 anni di progressi ucraini e aggravando le disuguaglianze. In attesa che parta la corsa all’oro, l’economia ucraina s’è contratta di un terzo dall’inizio dell’invasione: vi sono aree dove la quota di popolazione sotto la soglia di povertà raggiunge il 60 per cento.

Guadagnarci due volte
Per i giganti della finanza e dell’apparato militare-industriale, il conflitto è un affare due volte: finché dura, perché consuma gli stock di armi, ne aumenta la domanda e detta un’accelerazione della produzione; e quando finisce e “scoppia la pace”, perché inizia il percorso di ricostruzione.

L’Italia cerca di ritagliarsi uno spazio e, a fine aprile, proprio in coincidenza con la telefonata di Xi a Zelensky, ha organizzato a Roma una conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina. «L’Italia scommette sul futuro dell’Ucraina», scriveva nell’occasione su Twitter la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che non è finora stata molto fortunata mediaticamente nelle mosse ucraine: la visita a Kiev in autunno fu “appannata” perché avvenne un giorno dopo quella a sorpresa del presidente Usa Joe Biden; e, ora, la telefonata di Xi ha un po’ rubato la scena alla conferenza di Roma. Il che non ha però impedito al premier Shmyhal di considerare «straordinariamente importanti e fruttuose» le conversazioni sulla ricostruzione svoltesi «in un’atmosfera promettente».

L’apparato produttivo italiano è già mobilitato per la ricostruzione immediata e per quella futura, nel dopo guerra, che sarà «il più grande sforzo di ricostruzione della Seconda Guerra Mondiale». Ma quella di Roma non è l’unica iniziativa di questo genere e non è neppure stata la prima: a metà febbraio, ad esempio, a Varsavia c’era stato un Forum sulla ricostruzione, presenti 300 aziende circa da 22 Paesi; e già a dicembre 700 aziende francesi avevano animato un’iniziativa promossa dal presidente Emmanuel Macron. I finlandesi hanno fatto un webinar con gli ucraini proponendo loro eccellenze, trattamento delle acque reflue, trasformatori, trebbiatrici, alloggi prefabbricati.

Kiev alletta con promesse di affari chi si fa avanti per primo: la concorrenza per l’Italia s’annuncia numerosa e agguerrita. Il più grande investitore privato e la maggiore banca d’affari al mondo, BlackRock e JPMorgan, hanno già siglato accordi con il ministero dell’Economia ucraino. E, Cina a parte, i concorrenti occidentali al business ucraino sono importanti: c’è la Germania, che ha creato un fondo per garantire gli investimenti, oltre alla Francia; e c’è la Turchia, che s’è già portata avanti con i compiti diplomatici, acquisendo meriti a Mosca e a Kiev per avere contribuito a raggiungere la “pace del grano” firmata il 22 luglio 2022 e che ancora regge.

Il ruolo dell’Italia
Per mettere le mani sul grisbi della ricostruzione, bisognerà, probabilmente, essersi anche distinti negli sforzi per fare finire la guerra. E qui la Cina pare un passo avanti, con l’iniziativa di pace promossa da Xi e dalla sua diplomazia. Mentre l’Occidente, e l’Italia in particolare, resta attestato sulle posizioni atlantiche: la guerra finisce se la Russia la perde.

Su Foreign Affairs, l’autorevole rivista del Council on Foreign Relations, due noti analisti Usa, Richard Haass e Charles Kupchan, formulano una proposta per portare al tavolo negoziale Ucraina e Russia, basata sulla convinzione che non esista una soluzione militare al conflitto in corso, la cui prosecuzione ha crescenti costi umani ed economici per entrambe le parti e rischia di trascinarsi senza sbocchi e di sfociare, nel caso peggiore, in una escalation incontrollabile.

In un testo scritto per il Centro Studi sul Federalismo di Torino, Domenico Moro, coordinatore dell’area sicurezza e difesa, elabora, a sua volta, a partire dall’idea di Haass e Kupchan, una bozza di piano di pace europeo per l’Ucraina, che dovrebbe ispirarsi all’accordo “De Gasperi – Gruber” per il Sud Tirolo, alias Alto Adige, integrato nel 1972 ed avallato dall’Onu. Ma non è questa la linea fin qui seguita dal governo italiano.

In attesa che la diplomazia si metta al passo, le imprese italiane, che fiutano l’affare, come del resto fanno quelle statunitensi, britanniche, francesi, tedesche e, ovviamente, cinesi, si mobilitano, specie nei settori delle costruzioni e dei trasporti, dell’energia e dell’acciaio. A Roma, colloqui e contatti hanno interessato 650 imprese italiane e 150 ucraine. Settore per settore, questa è la situazione vista da Roma.

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