Nel settembre 2023 la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha affidato a Mario Draghi il compito di analizzare il futuro della competitività europea. Draghi, celebrato per aver salvato l’Eurozona quando era alla guida della Bce, si è così ritrovato sotto i riflettori di Bruxelles.
Il ritardo nella pubblicazione del documento, prevista inizialmente a giugno di quest’anno, ha alimentato un mix di scetticismo e speranza tra Stati membri e parti sociali. Queste ultime, ad esempio, si sono in alcuni casi mobilitate per lamentare mancanza di trasparenza e per mettere in guardia circa i rischi di una maggiore concentrazione del mercato europeo e della creazione di monopoli.
E in effetti, quando da ultimo è stata pubblicata, la relazione – quasi 400 pagine – ha confermato sia i timori che le aspettative: quel che emerge è un’analisi impietosa delle debolezze strutturali dell’economia europea. Il report critica apertamente gli Stati membri per il loro approccio frammentato, che ostacola l’innovazione e spreca risorse collettive in progetti nazionali privi di un reciproco coordinamento.
Una volta individuato l’ostacolo politico, le proposte tecniche vertono su tre temi principali: la necessità di colmare il divario di innovazione con Stati Uniti e Cina; l’opportunità della transizione ecologica come volano per stimolare la competitività; il bisogno di rafforzare l’indipendenza Ue in termini di risorse e sui temi della sicurezza.
Una nota interessante del documento riguarda anche la prospettiva in materia di equità sociale. Nonostante i già citati timori da parte di alcuni, infatti, Draghi e il suo team fanno lo sforzo di sottolineare che l’Unione mantiene (e dovrebbe puntare a mantenere) standard eccellenti in settori come istruzione, inclusione sociale, e salute. Tuttavia, si aggiunge, l’Ue non riesce a trasformare questi vantaggi né in crescita economica né in una decarbonizzazione rapida, e la produttività stagna rispetto alle grandi economie globali.
Reazioni
Il report ha suscitato molteplici reazioni in Europa e su aspetti anche molto diversi tra loro.
Per cominciare, è emblematico che la resistenza politica da parte degli Stati membri, correttamente descritta nel report, non abbia tardato a manifestarsi poche ore dopo la pubblicazione. Mentre il gruppo liberale nel Parlamento europeo pubblicava un messaggio di supporto alle ricette proposte, il ministro delle finanze tedesco Christian Lindner – dunque l’esponente forse più influente dell’agenda liberale in Europa, nell’economia più forte del blocco – ha rigettato categoricamente l’idea di usare il debito comune per finanziare questi vitali investimenti, una delle proposte al tempo stesso più centrali dell’intero report e senza la quale tutto il resto diventa non implementabile.
L’Europa è riuscita a fare debito comune per la prima volta per rispondere alla crisi del Covid-19, ma l’opportunità di farne uno strumento strutturale è rifiutata da molti Paesi nordeuropei. Questa discrepanza tra livello europeo e livello nazionale all’interno della stessa famiglia politica conferma che la vera resistenza a qualunque visione ambiziosa per l’Ue saranno le singole agende politiche “parrocchiali”, in particolare di Paesi autodefiniti «frugali» come Olanda, Germania.
Reazioni meno scoordinate si sono viste invece a livello delle grandi forze di centrosinistra e centrodestra. Nel nostro Paese, per esempio, Forza Italia ha seguito la linea del Partito Popolare Europeo manifestando supporto alle proposte del report; anzi, Antonio Tajan, leader di FI, ha addirittura rivendicato la paternità ideologica delle proposte per Berlusconi.
Tuttavia, nei molti anni e nei molteplici governi europei sia di centrodestra che di centrosinistra, concreti balzi in avanti in termini di integrazione economica, industriale e infrastrutturale europea si sono visti per lo più in momenti di crisi, quando cioè una maggiore integrazione rimaneva l’unica carta sul tavolo. L’esempio più concreto è quello già citato della creazione dei “Coronabond” durante la pandemia.
Viene dunque da chiedersi se alle dichiarazioni pubbliche farà seguito una qualunque spinta politica concreta nel corso del mandato della neonata Commissione.
In un’epoca di polarizzazione, tuttavia, le reazioni più interessanti sono quelle dell’estrema destra e della sinistra, che hanno criticato il report per motivi diversi e talvolta addirittura in contrasto. Se i partiti sovranisti si sono trovati d’accordo nel biasimarlo come un tentativo di centralizzare ulteriormente il potere a Bruxelles, il documento è stato invece interpretato allo stesso tempo come un elogio e una critica del modello economico neoliberale.
È indicativo, per esempio, il fatto che una personalità controversa e sempre più schierata verso la destra estrema come Elon Musk abbia fatto un endorsement al report, alimentando ulteriormente la preoccupazione che il rilancio dell’innovazione tecnologica auspicato da Draghi, se non gestito adeguatamente, possa favorire grandi corporazioni a scapito delle piccole e medie imprese e dei lavoratori meno qualificati.
Così, mentre Nicola Procaccini, importante eurodeputato di Fratelli d’Italia, si sofferma sulla critica (effettivamente presente) verso le numerose regolamentazioni Ue che scoraggiano i grandi investitori, esponenti del M5S hanno preferito evidenziare l’enfasi che il report pone sulla necessità di mantenere forti le forme di sostegno sociale, sottolineatura che non era affatto scontato sarebbe comparsa in un documento il cui focus era la competitività.
Bilancio
La forza e la debolezza di questo report risiedono spesso negli stessi punti. A partire dal fatto che l’autore stesso, Draghi, è da un lato riconosciuto e rispettato per il suo ruolo durante la crisi economica del 2012 e dall’altro è considerato da alcuni come un rappresentante delle politiche neoliberali che hanno condotto l’Ue alla condizione attuale, inclusa la crisi identificata dal documento stesso, generando nel processo diseguaglianze e polarizzazione.
D’altro canto, la relazione compie un reale tentativo di coniugare temi generalmente visti in contrapposizione tra loro – la competitività economica e l’inclusione sociale – finendo per prestare il fianco a interpretazioni strumentali sia in positivo che in negativo.
Un fattore, peraltro, emerge in maniera chiara. Se non si inverte la rotta a breve, e con coraggio, l’Ue rischia di dover scendere a compromessi con la sua stessa ragion d’essere: assicurare alla società europea equità sociale, transizione ecologica e il mantenimento dello stato di diritto.
La dissonanza di letture descrive bene la necessità di un cambiamento profondo nel modello europeo. L’idea di conciliare crescita economica e giustizia sociale, per esempio, potrà attuarsi tramite strumenti tecnici o economici che hanno però bisogno di una forte volontà politica per essere attivati.
Il momento di agire è ora, ma gli ostacoli politici sono enormi e questo report ambizioso e controverso rischia di naufragare, schiacciato da una politica incapace di pensare al domani.