François Ruffin conosce Emmanuel Macron sin dai tempi del liceo, quando entrambi frequentavano l’istituto gesuita La Providence di Amiens. Allora non si incrociavano spesso ma il futuro deputato della Somme non immaginava che un giorno, da presidente della Francia, il suo ex compagno di scuola avrebbe cambiato per sempre la sua vita.
La sera del 9 giugno Ruffin era proprio ad Amiens. Chi lo conosce bene racconta di una trepidante attesa, non solo per le europee ma per quanto stava preparando da settimane con i suoi collaboratori. Dopo l’implosione della coalizione Nupes, era pronto a lasciare La France Insoumise (Lfi) di Jean-Luc Mélenchon. Ormai era cosa fatta, persino la conferenza stampa della nuova formazione politica era già fissata. Ma la vittoria del Rassemblement national (Rn) di Marine Le Pen e la scelta dell’Eliseo di convocare nuove elezioni fece saltare tutto. Ruffin non fu il solo a capire l’importanza di unire le sinistre contro l’estrema destra ma fu, forse, il più veloce: «Una sola bandiera: Fronte popolare», propose sui social, riecheggiando il 1936. Una formula che si rivelerà vincente e che, nel bene e nel male, potrebbe costituire un modello anche in Italia.
Superare le divergenze
Quella notte la segretaria degli Ecologisti, Marine Tondelier, spaventata dal 31% di Le Pen e ancor più dal dimezzamento dei voti del suo partito, riaprì il dialogo con Lfi, seguita dai socialisti di Olivier Faure. Ormai non c’era spazio per accordi con il “ribelle” Ruffin che tenessero fuori Mélenchon, ma la sua proposta funzionava: bisognava solo rimettersi intorno a un tavolo. Facile a dirsi.
Alla fine, con le cinque sigle sindacali, oltre una trentina di formazioni politiche aderiranno al Nuovo Fronte Popolare, tra cui anche Place Publique (Pp) di Raphaël Glucksmann e i comunisti di Fabien Roussel. Ma ci vollero quattro giorni di negoziati in rue des Petits-Hôtels, a Parigi, solo per costituire davvero l’alleanza. I nodi da sciogliere erano tanti, a partire dai motivi per cui pochi mesi prima era implosa Nupes. Ora però si trattava di impedire l’avanzata dell’estrema destra.
In primis bisognava comporre le liste: in tre giorni i negoziatori raggiunsero un accordo di principio sulla ripartizione dei collegi tra le diverse forze, con un riequilibrio rispetto alle legislative 2022 che teneva conto del risultato delle europee, in cui con oltre il 13% Glucksmann aveva superato tutte le altre formazioni di sinistra. Ma andavano scelti i candidati e su questo punto si rischiò la rottura.
I negoziati correvano su binari paralleli: da un lato la scelta dei nomi e dall’altro i punti più spinosi come il sostegno militare all’Ucraina e la condanna del terrorismo di Hamas. Le questioni si intrecciavano perché un candidato o l’altro poteva spostare l’intera coalizione su temi identitari. Se i deputati uscenti furono tutti confermati, il problema si poneva in quei 105 (su 256) collegi in cui le sinistre avevano la maggioranza alle europee, seggi che ora andavano conquistati. I socialisti spingevano per lasciar scegliere il candidato al partito arrivato primo alle europee. Lfi voleva invece tener conto anche dei risultati delle elezioni del 2022.
A mezzogiorno del 13 giugno le trattative furono sospese. Una piccola folla di militanti e attivisti si riunì allora sotto le finestre della sede degli Ecologisti, dove si tenevano i colloqui: «Unitevi, non ci tradite!», fu il coro più scandito davanti al cordone di polizia schierato dalle autorità. Poco dopo arrivarono i leader dei partiti. Era una corsa contro il tempo: le liste andavano registrate in prefettura entro le 18 del 16 giugno ma le indicazioni per i materiali elettorali andavano date ben prima. Ci volle così un’altra mezza giornata per concludere l’accordo sui candidati. Pur di massimizzare il numero di seggi in Parlamento si abbandonò ogni colore di partito e furono scelti i nomi con le maggiori possibilità di vincere. Ma fu anche definito un programma comune.
Accordi spinosi
Abrogare la contestata riforma delle pensioni voluta da Macron, innalzare il salario minimo a 1.600 euro netti, rendere la scuola pubblica «veramente gratuita», stabilire una programmazione energetica nel rispetto dell’ambiente, tassare i grandi patrimoni, approvare una legge elettorale proporzionale e bloccare i prezzi dei beni essenziali. Ci volle un’altra settimana per mettere tutto nero su bianco ma alla fine fu trovato un compromesso, conflitti compresi.
Sulla guerra a Gaza, il Nuovo Fronte Popolare voleva rompere con «il colpevole appoggio del governo francese all’esecutivo di Benjamin Netanyahu», «per imporre un cessate il fuoco immediato» nella Striscia e «applicare l’ordinanza della Corte internazionale di giustizia che evoca inequivocabilmente un rischio di genocidio». Il tutto passando dal «riconoscimento immediato dello Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele sulla base delle risoluzioni dell’Onu», agendo sia «per la liberazione degli ostaggi sequestrati dopo i massacri terroristici di Hamas, di cui rifiutiamo il progetto teocratico», che «per il rilascio dei prigionieri politici palestinesi», sostenendo l’azione della «Corte Penale Internazionale nel perseguire i leader di Hamas e il governo Netanyahu».
Per quanto riguarda l’Ucraina invece, la coalizione confermava il sostegno a Kiev contro l’invasione della Russia «attraverso la consegna delle armi necessarie, la cancellazione del debito estero ucraino (…) e l’invio di forze di pace per proteggere le centrali nucleari».
Così, dieci giorni dopo le europee e ad altrettanti dal primo turno delle legislative, era ormai tutto pronto. Il risultato elettorale, anche visti i tempi record con cui si era formata la coalizione, fu storico: 28% al primo turno (dietro al Rn al 29%) e – grazie alle desistenze del Patto repubblicano – 30,8% al secondo (davanti al Rn al 24,6%). Ma non è andato proprio tutto liscio.
Il rischio dei personalismi
Se ci vollero quattro giorni per scegliere i candidati nei collegi, al Fronte servirà quasi un mese e mezzo per indicare Lucie Castets come candidata premier. Una scelta tardiva e che metteva da parte il nome di François Ruffin, padre della formula unitaria, che accuserà poi i partiti incapaci di accordarsi di «non voler governare».
Eppure la 37enne, ex Sciences Po, London School of Economics ed Ena nonché ex dirigente del Tesoro e del comune di Parigi non si presentava male. Secondo un sondaggio condotto da Elabe per Bfmtv, pur quasi sconosciuta, godeva del gradimento del 41% dei francesi. Una percentuale ben più alta del 30% raccolto pochi giorni prima dal Fronte e a soli 11 punti dal premier incaricato Michel Barnier, che secondo uno studio dell’Ifop per il Journal du Dimanche al momento della nomina accontentava non più del 52% dei transalpini. Un gradimento già sceso in pochi giorni. Secondo un’altra rilevazione di Elabe per Bfmtv infatti, nella prima settimana di settembre solo il 42% dei francesi riteneva l’ex commissario europeo «abbastanza competente».
«Ogni problema a suo tempo», aveva detto alla stampa un dirigente comunista durante i negoziati per formare il Fronte, rispondendo a una domanda su chi sarebbe stato il candidato premier della coalizione. Forse sarebbe servito un altro miracolo per concludere anche quell’accordo ma chissà che in Italia non si possa imparare qualcosa da questa storia.