«Curo gratuitamente, perché la salute è un diritto di tutte». L’ambulatorio di Elisa Canitano, ginecologa in pensione, è sede della onlus Vita di donna ed è una piccola stanza avvolta nell’ombra delle imposte chiuse. La dottoressa le apre con fare lesto, svelando l’ampia corte su via della Lungara, vicino alla sponda del Tevere e al carcere Regina Coeli. La finestra inquadra il cielo di Roma. «Compro le spirali grazie all’Unione atei agnostici razionalisti e le regalo agli ambulatori per donne straniere, alle pazienti e ai consultori», ci spiega Canitano, mentre indica l’armadietto dove custodisce speculum, tamponi, confezioni di diaframmi. Una libreria con scaffali aperti divide la piccola stanza in due vani: a ridosso della finestra, la dottoressa ha allestito il lettino ginecologico e la lampada per le visite. «È a norma di legge», specifica. L’altro vano funge da sala d’attesa modesta e accogliente: la scrivania spoglia e tre sedie nell’angolo prossimo all’ingresso; le stampe di Klimt sulla parete nuda di fronte al divano, una dormeuse grigia senza cuscini.
«Lisa, quando ci vediamo?», chiede una paziente. Canitano sorride, si ravvia i capelli biondi e lunghi fino al collo, inforca gli occhiali e sfoglia l’agenda fitta di appuntamenti. Ogni giorno la dottoressa aiuta tantissime donne in ambulatorio e sui canali social: elabora certificati per l’interruzione di gravidanza, fuga dubbi sulle malattie sessualmente trasmissibili e dà consigli sulle contraccezioni. «Abbiamo diritto a ricevere assistenza ginecologica gratuita e a fare scelte libere nella vita riproduttiva», ci dice Canitano. «Qui invece vige lo stigma dell’aborto».
In Italia la legge 194 del 1978 tutela la maternità, delinea i compiti dei consultori, concede al personale sanitario l’obiezione di coscienza ma regola l’accesso all’aborto entro i 90 giorni dal concepimento qualora la gravidanza costituisse «un serio pericolo per la salute della donna». Dopo il terzo mese, la legge fa un’eccezione in caso di «grave pericolo». Il limite tra lecito e proibito risiede dunque in un aggettivo, nella sottile differenza tra serio e grave. L’Istituto Superiore di Sanità (Iss) delinea invece le modalità esecutive dell’aborto: chirurgico e farmacologico in ospedale e solo farmacologico nei consultori. Il problema, secondo Canitano, è di triplice natura: tagli al sistema sanitario, scarsa informazione, ingerenza del Vaticano e degli obiettori di coscienza, tutelati dalla legge.
Problema sistemico
Anna (nome di fantasia) è al quinto mese, ha il sacco amniotico rotto e rischia la vita, ma ignora il pericolo: in un ospedale religioso di Roma le prescrivono un antibiotico, consigliandole di tornare a casa. Durante la notte sta male, scrive un’e-mail alla dottoressa Canitano, che la mette subito in contatto con un ospedale laico: è un’urgenza e i medici effettuano l’aborto senza aspettare altro tempo. Canitano lamenta una contraddizione: «Solo le strutture cattoliche, avendo più risorse economiche, eseguono in unico centro gli esami di diagnosi prenatale fondamentali dopo il terzo mese ma sono piene di obiettori». Nel pubblico, secondo Canitano, mancherebbe una rete che offra percorsi analoghi.
Anche le informazioni sull’accesso all’aborto sono scarse e poco chiare. «Il ginecologo mi dice di essere felice, intimandomi di non diventare un’assassina». Giulia, 25 anni, racconta il suo «calvario di stress, notti in bianco, ricerche disperate su Internet», fino a quando, in un gruppo Facebook di cui fa parte la dottoressa Canitano, le consigliano una clinica a Barcellona per l’aborto chirurgico. «In Italia c’è una grande mancanza di informazione. Non avevo idea con chi parlare per chiedere aiuto», confessa Giulia. Come lei «tante altre pazienti ignorano modalità, tempi e luoghi sull’aborto, perché lo Stato divulga poco e male le informazioni», ci spiega Canitano. Un esempio su tutti: il ministero della Salute non ha mai fornito l’elenco delle strutture che praticano l’interruzione volontaria di gravidanza (ivg). Sul sito-web di Laiga (Libera associazione italiana ginecologi non obiettori per l’applicazione della 194), la dottoressa Silvana Agatone, grazie all’aiuto di colleghe e volontarie, aggiorna invece la mappa degli ospedali e dei consultori che effettuano l’ivg. «Abbiamo chiamato i centralini delle strutture. Alcune volte gli operatori non sapevano rispondere o manifestavano omertà e disprezzo», rivela Agatone. Secondo Laiga, a Roma solo 8 ospedali eseguono regolarmente l’aborto chirurgico e farmacologico: San Filippo, Sant’Anna, Sandro Pertini, Umberto I, San Giovanni, San Camillo, Sant’Eugenio e il Presidio Grassi a Ostia. Nelle strutture sanitarie pubbliche di Roma e del Lazio, però, il 69 per cento dei ginecologi e il 56 per cento degli anestesisti dicono no all’aborto. È quanto emerge dall’inchiesta condotta nel 2023 dal collettivo “Non una di meno” e dal “Coordinamento delle assemblee delle donne e delle libere soggettività dei consultori”.
In base ai dati ministeriali, dal 2009 al 2021 il numero di interruzioni volontarie di gravidanza nel Lazio è diminuito del 48 per cento. «Un calo ascrivibile all’accessibilità del servizio», commenta la Cgil regionale nel report sui consultori nel Lazio. Intanto, come denunciava il Consiglio d’Europa nel 2016, il personale non obiettore in Italia è vittima invece di discriminazioni sul luogo di lavoro.
La stessa ginecologa Silvana Agatone ha subito forme di ostracismo a Roma. Ne parla con voce pacata, senza celare il disappunto per le angherie: «Una paziente al quinto mese fu lasciata sola in bagno a espellere il feto. Avevo detto alle ostetriche di assisterla ma loro si rifiutarono». Agatone chiude gli occhi, trattiene il fiato, sospira e prosegue: «Un primario cattolico mi obbligò ad accettare il ricovero di una sola paziente per l’aborto dopo i 90 giorni, nonostante fossero disponibili più posti letto. Dissentii e lui mi vessava. Le infermiere non volevano distribuire la terapia farmacologica».
“Involucri vuoti”
Anche nei consultori, presidi socio-sanitari laici e gratuiti, simboli delle lotte femministe negli anni Settanta, il 20 per cento del personale dichiara di essere obiettore. I dati si riferiscono al Lazio. Lo denuncia l’inchiesta del collettivo “Non una di meno”. Gabry Marando è una delle fondatrici e gestisce un banco di frutta e verdura biologica, ogni mattina si alza alle 5,00, fa turni estenuanti e mai disattende l’impegno che più le sta a cuore: monitorare la qualità dei servizi nei consultori. Lo fa come volontaria sin da quando a Centocelle, un quartiere di Roma est, l’Asl voleva chiudere un presidio. Marando organizza due volte a settimana le assemblee nei consultori della capitale: parla con ginecologhe, ostetriche, assistenti sociali e con le pazienti; segnala i disservizi alle Asl e ne chiede conto alla Regione Lazio, ma rivela: «Il governatore Francesco Rocca non risponde mai».
A febbraio, nella sala allattamento di un consultorio, a Roma est, Marando incontra alcune pazienti. Sulle poltrone in fila lungo la parete, le mamme cullano i figli. Si sentono l’eco dei vagiti e lo scalpiccio dei primi passi. Un papà accoglie nelle braccia un bimbo, mentre trattiene il manubrio del passeggino. Nell’angolo, c’è una montagna blu e verde di palloni pre-parto, che desta la curiosità di una bambina. Di fronte, su uno scaffale sono accantonati libri di fiabe e favole. «Oggi c’è poca gente», Marando sorride, snocciola dati a memoria e illustra gli aspetti critici dei consultori a Roma, descrivendoli come «involucri vuoti»: «Ce ne vorrebbe uno ogni 20mila abitanti ma, a causa dei tagli, il personale ridotto all’osso non fa fronte a tutto. Questo è uno dei presìdi che resiste». Un’operatrice entra nella sala, rimane defilata sulla soglia, ha i capelli scarmigliati e il viso stanco, saluta e racconta: «Riesco a fare le emergenze. Dovrebbero esserci più colleghe. È un casino. Abbiamo solo 10 minuti per mangiare qualcosa». Marando le promette che ne parlerà con il dirigente Giorgio Casati dell’Asl Roma 2, la più grande d’Europa. Loredana, una paziente, accenna parole di conforto: «Difenderemo i consultori con le unghie e con i denti». Marando e Loredana l’hanno giurato a Mariapia Cantamessa, ginecologa antesignana dei movimenti femministi: «L’assistenza sanitaria gratuita e la libertà di scelta sono un diritto di tutte! Giù le mani dai consultori e dall’aborto».
Tagli, tagli, tagli
L’Asl Roma 2 è la più grande d’Europa, ma ha solo 21 consultori, di cui alcuni a rischio chiusura in quartieri difficili. «L’area che copre va da Lunghezza a Laurentina, metà capitale insomma, equivale a due Bologne e a una Firenze», spiega Gabry Marando del collettivo “Non una di meno”.
Pietralata, Primavalle, Laurentina e da giugno Via Cambellotti a Tor Bella Monaca: sono solo quattro i consultori che, in tutta Roma, offrono il servizio di aborto farmacologico, nonostante la regione Lazio sia stata la prima ad applicare le linee guida ministeriali sulla pillola Ru486. Tutti i consultori su carta funzionano ma quasi mai vantano una squadra di lavoro al completo.
Secondo Marando, la causa principale è il taglio del personale: «Le psicologhe, per legge, ad esempio, dedicano solo 18 ore alle attività consultoriali». Succede a Tor Cervara e al Quarticciolo, aree fragili dove i consultori sono aperti solo un pomeriggio a settimana sia per il contesto difficile, sia per la rotazione del personale, che fa la spola tra le sedi. A Casilina, invece, il consultorio non funziona per inadempienze del Municipio. Altre volte l’Asl opta per gli accorpamenti. È il caso del presidio a Lunghezza, che a breve confluirà con quello di Cambellotti. In affanno pure l’Asl Roma 3, sempre per carenza di personale. «Secondo la legge del 1975, Roma dovrebbe avere 95 consultori, ma ce ne sono 54», conclude Marando che assicura: «Nei consultori della capitale, al momento, le associazioni anti-aborto non hanno spazio».