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Ciao, ho 30 anni e sono il problema

«Molti della mia generazione hanno dovuto mettere tutto in sospeso». Università sempre più costose, la crisi peggiore dai tempi della Grande depressione, un mercato immobiliare inaccessibile: anche negli Stati Uniti, come da questa parte dell’Atlantico, per gli ultratrentenni l’ingresso nella vita adulta è stato complicato. 

Spesso oberati da debiti studenteschi, con carriere a singhiozzo, i cosiddetti Millennials hanno faticato a percorrere la stessa strada delle generazioni che li hanno preceduti. Una disaffezione che sta spingendo i nati tra il 1981 e il 1996, e anche i membri della successiva Generazione Z, su posizioni sempre più distanti da quelle dei propri rappresentanti a Washington e che potrebbe avere ripercussioni anche sulla corsa per la Casa Bianca. 

Negli ultimi anni i Millennials sono diventati la generazione più numerosa negli Stati Uniti, scalzando quella dei Baby Boomer (nati tra il 1946 e il 1964). Oltre a influenzare le strategie delle aziende e dettare le tendenze, decretando il successo del toast all’avocado e la fine della tv via cavo, i Millennials e la Generazione Z si preparano così a diventare l’ago della bilancia della politica americana. 

Traditi dal capitalismo
A lungo dato per scontato, il loro sostegno al Partito democratico di Joe Biden viene ora messo in discussione. «C’è un vero senso di disillusione», ha spiegato la giornalista statunitense Jeanna Smialek, che si occupa di economia per il New York Times. Intervistata dal podcast del quotidiano, The Daily, Smialek ha ricordato una conversazione fatta con un 33enne per un suo recente articolo dedicato ai problemi di questa fascia d’età: «Ha la sensazione che qualcosa sia andato storto e mi ha proprio detto che dà la colpa al capitalismo». 

L’uomo in questione è nato in Pennsylvania da una famiglia della classe media, il padre insegnante e la madre infermiera. Lui però non è riuscito a seguire i passi dei suoi genitori. Ha ottenuto un master in assistenza socio-sanitaria, ma i debiti contratti per studiare gli hanno finora impedito di mettere da parte risparmi. Adesso ha due lavori e in passato era arrivato a farne un terzo, presso un fast food. È sposato ma non riesce a mettere su famiglia e prima ancora ad acquistare una casa. Una situazione lo ha spinto su posizioni politiche radicali.

«Secondo lui siamo in un sistema in cui la ricchezza e i mezzi per ottenerla sono sempre più concentrati in poche mani. Mi diceva che è sempre stato un democratico, ma non sa nemmeno se in queste elezioni potrà mai votare per qualcuno», ha detto Smialek, che nel suo articolo si è concentrata su un gruppo specifico di Millennials, quello dei nati tra il 1990 e il 1991. 

Attualmente sono 9,5 milioni gli americani nati in questi due anni, che hanno segnato il picco delle nascite negli ultimi decenni. Una “micro-generazione” che, entrata all’università poco dopo la Grande recessione, si è poi trovata ad affrontare il peggior mercato del lavoro degli ultimi decenni e, quando è arrivato il momento di comprare casa, i rincari record del mercato immobiliare.

L’impressione, per chi quest’anno compirà 33 o 34 anni, è di aver trovato a ogni passo meno opportunità rispetto a quelle a cui poteva aspirare chi è venuto prima. Un vissuto comune a questa “micro-generazione” che rappresenta il picco della popolazione statunitense e che, affacciatasi all’età adulta, ha trovato solo posti in piedi. 

La questione dei debiti
Come raccontato al quotidiano dalla 33enne Jen Vos, di lavoro archivista, «molti della mia generazione hanno dovuto mettere tutto in sospeso». Impiegata a tempo pieno, per acquistare un’auto vecchia di dieci anni nel 2021 ha prosciugato molti dei suoi risparmi. E come molti della sua generazione, deve ancora finire di pagare i debiti contratti per gli studi. 

Negli ultimi decenni questo tipo di debito è cresciuto vertiginosamente fino a superare, a partire dal 2010, le carte di credito e i prestiti per l’acquisto di auto come principale forma di finanziamento al di fuori del settore immobiliare. Attualmente sui neolaureati statunitensi grava in media un debito di 37.650 dollari (quasi 34.800 euro), pari al 63% dello stipendio medio iniziale per un laureato. Un aumento drastico dal 39% del 2008, che si è accompagnato a un forte rincaro delle rette. 

Stando alle stime dell’Education Data Initiative sui costi dei college pubblici, negli ultimi vent’anni questi sono schizzati del 179,2%. Proprio le difficoltà nel pagamento di questi debiti, secondo un’ipotesi dei ricercatori della Federal Reserve di New York, potrebbe aver contribuito al recente aumento dei tassi di insolvenza sulle carte di credito e sui finanziamenti per le auto tra le persone di età compresa tra 30 e 39 anni. 

Dopo il tentativo, affondato dalla Corte Suprema, di cancellare in tutto o in parte debiti studenteschi a circa 40 milioni di persone, l’amministrazione Biden sta cercando altre soluzioni per venire incontro agli ex studenti. Nel frattempo però sono ripresi i pagamenti delle rate, sospesi per tre anni e mezzo come parte delle misure per contrastare la pandemia. E alcuni hanno scelto di non pagare come forma di protesta. 

«I Millennials come me hanno attraversato così tante crisi economiche e hanno visto salvataggi di aziende e banche, ma non possiamo pagare quei debiti studenteschi di cui, secondo quanto ci avevano detto, avremmo avuto bisogno per avere successo», aveva detto a Bloomberg la 37enne Amanda Acevedo, prima della ripresa dei pagamenti a ottobre. «Stiamo dicendo ai nostri rappresentanti che stiamo in difficoltà, ma loro non stanno facendo nulla per aiutarci», aveva aggiunto la donna, madre di tre figli. 

D’altra parte il governo sta cercando di rendere più accessibili i programmi di aiuto già esistenti. Dall’inizio del mandato sono 4 milioni le persone che hanno beneficiato di queste agevolazioni, tramite le quali sono stati tagliati debiti per 144 miliardi di dollari. Il piano bocciato a giugno dalla Corte Suprema avrebbe cancellato fino a 20mila dollari di debito a persona, per un totale di 430 miliardi di dollari. 

Una maglia troppo stretta?
L’amministrazione Biden sta cercando di dare risalto ai dati economici positivi, che hanno però tardato a tradursi in consensi per il leader democratico. «Ora la nostra economia è l’invidia del mondo», ha sottolineato il presidente durante il discorso dello Stato dell’Unione. «Quindici milioni di nuovi posti di lavoro in soli tre anni: è un record! Disoccupazione ai minimi da 50 anni. Sedici milioni di americani, un numero record, stanno avviando piccole imprese e ognuna di esse è un atto di speranza». 

Il messaggio finora è stato accolto solo in parte dagli elettori, che in generale rilevano un miglioramento della situazione economica ma continuano a dirsi insoddisfatti. Nonostante il calo degli ultimi mesi, in cima alle preoccupazioni dei cittadini continua a esserci l’inflazione, che, dopo aver superato a lungo la crescita dei salari, si è stabilizzata a livelli di poco superiori al 3%.

Il rovescio della medaglia è il forte aumento impresso dalla Federal Reserve ai tassi d’interesse, che si è trasmesso al costo degli immobili. Nei sondaggi, infatti, il giudizio degli elettori sul mercato immobiliare segue solo quello sull’inflazione in quanto a negatività. Soprattutto tra chi è in affitto e tra i Millennials. 

Secondo alcuni la situazione non è solo il frutto di scelte di politica economica. Ci sarebbe invece una spiegazione demografica per i problemi che i Millennials si sono trovati ad affrontare. È la tesi di Jeanna Smialek, che nel suo articolo sul New York Times attribuisce alle dimensioni della generazione più numerosa, e in particolare alla “micro-generazione” del ’90-’91, alcuni degli ostacoli che le stesse hanno incontrato. 

Si parte dall’osservazione che, per chi compirà 33 o 34 anni, molti passaggi della propria vita sembrano aver accompagnato gli sviluppi recenti dell’economia statunitense. Quando questa coorte si è affacciata all’università, tra il 2008 e il 2009, le immatricolazioni hanno raggiunto livelli record e il debito studentesco è iniziato a decollare. Poi è entrata in un mercato del lavoro in piena crisi dopo la Grande recessione. Infine, quando è arrivato il momento di cercare casa, i prezzi hanno iniziato la loro cavalcata da record. 

A contribuire a questi fenomeni sarebbe la generazione stessa che ne subisce gli effetti e di volta in volta mette alla prova un sistema che non ha una capacità adeguata. In sintesi: «I Millennials si lamentano di essere accusati di tutto, ma chi li accusa potrebbe avere ragione».

La metafora è quella di una maglia troppo stretta che si deve allargare per essere indossata e poi si sfilaccia. Il destino dei nati nel ’90-’91 sarebbe quindi di farsi concorrenza per un’offerta limitata di case, posti di lavoro e altre risorse. Effetto delle dimensioni della “micro- generazione”, che nel 2022 contava 4,75 milioni di nati nel 1990 e 4,74 milioni nel 1991, le due fasce più numerose in assoluto. Una situazione diversa da quella italiana, dove, nonostante problemi come caro-affitti e precarietà siano ben presenti, le fasce più numerose sono tra i 56 e i 58 anni. 

Le conseguenze di tutto ciò potrebbero essere durature. Secondo la letteratura, chi entra nel mercato del lavoro in un periodo di crisi rischia di subire ricadute a lungo termine sulla propria carriera.

Attualmente i trentenni continuano a essere occupati a livelli inferiori rispetto ai decenni passati, seguendo una tendenza al ribasso di lungo corso. Inoltre scelgono sempre più spesso di non fare figli, citando tra le principali motivazioni quelle economiche. Un rischio per la salute futura dell’economia e del sistema pensionistico, che avrà sempre meno contribuenti a sostenere l’ondata dei pensionati Millennials. 

Ago della bilancia
Al di là dell’analisi economica, rimane il dato politico. La disillusione di una parte significativa delle nuove generazioni potrebbe diventare un tema sempre più rilevante nell’agenda dei partiti. 

Già alle presidenziali di quest’anno, la questione del voto giovanile è centrale. Biden sembra aver esaurito il vantaggio schiacciante che aveva tra gli elettori più giovani. Nel 2020, secondo un’indagine del Pew Center, aveva staccato Donald Trump di 20 punti tra Millennials e Generazione Z.

Quattro anni dopo, secondo diversi sondaggi, ne ha persi almeno 15. Un ribaltamento rispetto a quanto era accaduto nel 2020, quando i giovani erano stati fondamentali per la vittoria del candidato democratico mentre le generazioni più anziane avevano preferito Trump. Adesso invece il tycoon ha la possibilità di ottenere con gli elettori più giovani il miglior risultato di qualsiasi candidato repubblicano in epoca recente e Biden sembra potersi assicurare l’elettorato più anziano, tradizionalmente conservatore. 

Ma per l’attuale presidente, che compirà 82 anni il 20 novembre, i consensi dei Baby Boomer e della Silent Generation (nati tra il 1928 e il 1945) potrebbero non bastare. La strada della rielezione si preannuncia lunga e in salita. Mancano sette mesi a novembre, quando andrà in scena la prima “rivincita” dagli anni Cinquanta, ma già sono evidenti le differenze con il 2020, quando l’ex vicepresidente fu in vantaggio per tutta la durata della campagna elettorale. Questa volta i pronostici sono ribaltati: per mesi infatti i sondaggi hanno dato in vantaggio Trump. 

Entrambi i candidati sono impopolari, ma i numeri del democratico sono peggiori di quelli del repubblicano. L’anno scorso, secondo Gallup, il gradimento di Biden ha sfiorato i livelli più bassi di qualsiasi presidente statunitense al terzo anno del suo mandato. Peggio di lui, negli ultimi 70 anni, ha fatto solo Jimmy Carter, l’ultimo democratico a mancare la rielezione. 

Secondo Gallup, nel 2023 il gradimento per Biden è stato in media del 39,8%, il dato più basso per il terzo anno di un presidente statunitense dal 1979. Quell’anno Carter, alle prese con la crisi degli ostaggi in Iran, l’impennata dei prezzi del gas e un’inflazione a due cifre, fece registrare un gradimento medio del 37,4 %. Le elezioni del 1980, con la sconfitta schiacciante contro Ronald Reagan, segnarono una svolta nella politica americana, aprendo una fase di dominio dei conservatori.

Solitamente i presidenti in carica iniziano la campagna elettorale in testa nei sondaggi. Quella di Trump nel 2020 fu un’eccezione. Anche nella campagna per le presidenziali del 1984 Reagan partì in svantaggio, ma a meno di un anno dal voto aveva già recuperato. 

Per Biden sarà quindi necessario riconquistare almeno parte dei disillusi. Gli elettori più giovani, tra i quali il presidente ha perso terreno, stanno diventando una fetta sempre più consistente dell’elettorato, mentre il peso degli elettori più avanti con l’età, che sostengono il candidato democratico, si va sempre più riducendo. 

Secondo le stime dello States of Change Project, quella del 2024 sarà la prima elezione in cui le generazioni più giovani e quelle più anziane si equivarranno. Anche per questo i sondaggi usciti negli scorsi mesi hanno preoccupato il Partito democratico. Stando a un’indagine condotta a febbraio da Axios- Generation Lab, Biden è sostenuto solo dal 52% dei giovani, rispetto al 48 di Trump. 

Da un altro sondaggio, condotto dal New York Times in collaborazione con il Siena College, emergono risultati parzialmente diversi: nella fascia 18-29, che comprende membri della Generazione Z e Millennials più giovani, è in netto vantaggio Biden (53 a 41) mentre tra i 30-44enni prevale Trump (48 a 41). Un divario che si allarga tra i 45-64enni (54 a 36 per Trump), mentre Biden torna in vantaggio tra gli ultra 65enni (49 a 43). 

Joe vs Donald
Per recuperare consensi l’amministrazione Biden sta accelerando sulla cancellazione del debito studentesco. A marzo la Casa Bianca ha annunciato che il presidente avrebbe inviato una mail ad altri 380mila debitori, confermando loro che sono in regola con i requisiti per ottenere la cancellazione del debito entro due anni. 

«Innumerevoli persone mi hanno detto che alleviare il peso del debito del prestito studentesco consentirà loro di sostenere se stessi e le loro famiglie, acquistare la prima casa, avviare una piccola impresa», ha scritto Biden nella mail, che ha seguito l’annuncio della cancellazione di 5,8 miliardi di debito studentesco per altri 77.700 ex studenti.

Un altro fronte aperto è la lotta all’inflazione e alla perdita del potere d’acquisto. Come in Europa, anche negli Stati Uniti alla pandemia è seguita un’accelerata dei prezzi che non si vedeva da decenni e ha spinto l’inflazione oltre il 9%. Un’impennata a cui la Federal Reserve ha risposto riportando i tassi ai massimi da più di vent’anni, anche se la discesa dell’inflazione è stata lenta. Alla stangata al costo del denaro si è così accompagnato la perdita graduale del potere d’acquisto dei lavoratori, che per i primi due anni della presidenza Biden hanno visto i propri salari crescere meno dei prezzi. 

L’inversione di tendenza è arrivata solo un anno fa: la speranza per la Casa Bianca è che entro novembre la ripresa del potere d’acquisto convinca gli indecisi a tornare alle urne. Anche per questo il presidente si è sbilanciato sul corso futuro della Fed, prevedendo un taglio dei tassi d’interesse. «Non posso garantirlo. Ma scommetto, potete scommetterci, che quei tassi scenderanno di più, perché quella piccola organizzazione che fissa i tassi di interesse li farà scendere», ha detto a inizio marzo. 

Già a dicembre Biden si era pronunciato sulla decisione della banca centrale, invocando uno stop ai rialzi. Uno strappo alla regola seguita solitamente dalla Casa Bianca, che però ha avvicinato il presidente al suo predecessore. Durante il suo mandato, Trump si era battuto per mesi contro il presidente della Fed, Jerome Powell, e la sua decisione di aumentare i tassi, accusati di rallentare eccessivamente l’economia. 

A pesare sulle chance del candidato democratico, oltre ai giudizi sulla gestione dell’economia e dell’immigrazione, c’è anche il sostegno a Israele nella campagna militare su Gaza. Secondo i sondaggi, gli elettori più giovani ritengono che Israele non abbia fatto abbastanza per prevenire le vittime civili a Gaza e che la campagna militare debba fermarsi. 

Per contestare l’amministrazione molti hanno rivolto un appello a non esprimere alcuna preferenza alle primarie dem, scegliendo sulla scheda «uncommited». Un voto di protesta che dovrà accompagnare le tappe verso la convention di Chicago ad agosto, in cui nessun candidato di alto profilo finora ha scelto di sfidare Biden, nonostante i dubbi sulla sua età e i sondaggi deludenti. 

In Minnesota e nel Michigan, uno degli Stati chiave nella contesa di novembre, il numero di schede «uncommited» ha superato il margine di vittoria alle scorse elezioni. La speranza per i manifestanti è di far valere il proprio peso e spingere il Partito democratico in un’altra direzione. 

«Non riuscirei a guardarmi allo specchio se votassi per qualcuno che ha preso decisioni come quelle di Biden», ha commentato alla Nbc Evan McKenzie, 23enne del Wisconsin che lavora a Starbucks. Il giovane, impegnato in uno dei sindacati formati recentemente all’interno della nota catena di caffè, ha votato per la prima volta nel 2020. Il suo è uno degli Stati chiave che quattro anni fa Biden ha conquistato con un margine minimo. All’epoca McKenzie aveva invitato i suoi amici a seguirlo, ma questa volta incrocerà le braccia. 

«Voglio dare una dimostrazione al Partito democratico, in quanto giovane: devono ancora meritarsi il nostro voto, altrimenti devono sapere che il rischio è di pagarla con la propria carriera», ha detto. «L’elezione di un repubblicano non è la fine. È l’inizio di una battaglia molto più grande».

LEGGI ANCHE: Noi giovani e la politica, tra apatia e grandi battaglie

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