Per le strade di Tel Aviv non si sono mai visti tanti civili camminare con i loro M16 appesi al braccio e piastrine ai colli delle persone con la scritta “Bring Them Home Now” (“Portateli a casa adesso”, ndr). Nell’attuale contesto ipermilitarizzato del Paese – dal 7 ottobre sono 260mila le nuove richieste di porto d’armi – criticare la guerra in corso è ritenuto un gesto radicale, ma schierarsi apertamente contro l’esercito di Tsahal è una scelta che può portare direttamente ai margini della società, con ripercussioni inevitabili sul proprio futuro sociale e lavorativo.
Tuttavia dalla riforma giudiziaria voluta dal primo ministro Benjamin Netanyahu un anno fa, c’è una parte crescente e poco raccontata della società, un movimento di giovani obiettori di coscienza, che sta scegliendo di dire «no» alla guerra e di denunciare il «massacro» (termine vietato dalle autorità) in corso a Gaza. Li abbiamo incontrati nel Left Bank, sede del partito Hadash, in un quartiere residenziale di Tel Aviv. Qui trovano rifugio, sostegno e assistenza legale i giovani refuser israeliani del movimento “Mesarvot” (“Noi rifiutiamo”), che hanno annunciato pubblicamente la loro decisione di non arruolarsi, scuotendo una vasta maggioranza dell’opinione pubblica israeliana, che come principale fonte d’informazione ha le Forze di difesa israeliane.
Fuori dal sistema
Yeheli Cialic ha 24 anni ed è il direttore della rete Mesarvot. Il suo compito è aiutare i giovanissimi refusenik israeliani a superare il processo di obiezione, veicolando le loro voci per chiedere un cambiamento di direzione al governo.
«Quando la gente mi chiede cosa faccio, rispondo che aiuto le persone a uscire dall’esercito», dice aspirando forte una sigaretta arrotolata. «Quando scegli di non arruolarti qui, sai che sarai emarginato, ma il primo passo è capire il potere di dire “no”, svegliarsi ogni mattina e scegliere di lottare».
Cialic è il primo della sua famiglia a non entrare nell’esercito, ed è l’unico figlio maschio. «Quando ho deciso di non arruolarmi – racconta – in famiglia c’è stata una crisi. Per noi entrare nell’esercito è come per gli americani andare al college, è naturale. Le mie sorelle sono arruolate, tutti i miei cugini occupano posizioni di comando, anche mio padre era un comandante. Quando ero più piccolo non avevo il vocabolario per capire cos’erano la guerra, l’occupazione, l’apartheid (“hafrada” in israeliano). Mi sembrava una scelta egoistica non arruolarmi mentre altri morivano per la mia sicurezza. Ci è voluto molto tempo. Da adolescente – prosegue Cialic – ero appassionato di romanzi a fumetti: è stato leggendo “Cronache di Gerusalemme” di Guy Delisle che ho sentito parlare per la prima volta del conflitto arabo-palestinese e che ho iniziato a rifletterci. Poi ho sentito le testimonianze di movimenti come “Breaking the Silence” e dopo un anno di università ho cominciato ad appassionarmi di storia e politica e a riflettere su che tipo di persona volevo davvero essere. Una volta raggiunto questo tipo di consapevolezza, ho capito che il mio dovere era quello di resistere. Ma non puoi resistere all’interno del sistema. Dovevo uscire e trovare un modo per cambiare il nostro futuro».
Per Cialic l’esercito non fa altro che attuare le politiche del Governo, e questo Governo non garantisce alcuna sicurezza agli israeliani. È questo il motivo per cui Mesarvot, nato appena a marzo dell’anno scorso, ora è diventato così grande. «Obiettare è il primo atto che puoi compiere da israeliano per dire “Non sono d’accordo con ciò che sta accadendo ora; non sono d’accordo con chi sostiene che, in quanto ebreo, la mia vita vale di più della tua; non sono d’accordo con l’idea della prosecuzione dell’occupazione e dell’apartheid”. Col tempo ho imparato ad apprezzare a fondo il potere di dire no. Lo usiamo per diffondere il nostro messaggio tra i giovani israeliani e, in generale, per parlare della nostra responsabilità legata all’occupazione».
Avanti insieme
La politica proposta dai giovani refuser per Cialic è una politica di cambiamento reale, non di espressione personale. Secondo lui quello che manca davvero nella lotta internazionale per la liberazione e l’uguaglianza tra palestinesi e israeliani è un «modo chiaro» di fare le cose. «I nostri punti chiave – spiega – sono cinque: un completo cessate il fuoco, l’avvio di nuovi negoziati per una soluzione politica, un accordo completo per prigionieri e ostaggi, la cessazione della persecuzione contro chi si oppone alla guerra, il rafforzamento delle comunità più deboli maggiormente colpite, come gli ebrei mizrahi, i palestinesi israeliani e i beduini, particolarmente colpiti dalla discriminazione in questi ultimi tre mesi».
Cialic spiega come prima della guerra anche la sinistra israeliana si trovava in una posizione agnostica verso una soluzione, «ma oggi molte persone sono stanche: meritiamo una soluzione a lungo termine che porti stabilità, sicurezza e prosperità», dice. «Vogliamo che più organizzazioni internazionali lavorino verso soluzioni reali, politiche che apportino un cambiamento effettivo, non solo utili a pulirsi la coscienza. Meritiamo qualcosa di meglio di un altro cessate il fuoco».
Per Cialic il ruolo di Mesarvot è rendere il movimento dei refuser più accessibile al pubblico, canalizzare il potere dei giovani obiettori coscienza e creare un movimento con obiettivi chiari e messaggi condivisi, fare campagne ed essere molto professionali a riguardo.
«Il movimento dei refuser in Israele esiste del 1948, ma era sonnolento», fa notare. «Uno dei principali catalizzatori della sua recente crescita è stata, oltre al nostro precedente direttore Noa Levy, la riforma giudiziaria voluta da Benjamin Netanyahu. Ad agosto abbiamo raccolto oltre 350 firme in una lettera pubblica di giovani che rifiutavano di arruolarsi. Lavoriamo molto sul contenuto dei messaggi che vogliamo far passare e aiutiamo i ragazzi a scrivere le lettere di obiezione. Il nostro movimento è guidato dai refuser, io sono solo un facilitatore, sono loro a impostare il tono del discorso. Ora abbiamo creato un gruppo di giovani attivisti molto in gamba», sottolinea Cialic.
«Molti di loro – continua – provengono dalle proteste antigovernative degli scorsi mesi e diverse persone del movimento contro l’occupazione sono venute da noi perché hanno visto che stavamo facendo qualcosa di utile. Lavoriamo insieme sul campo ogni settimana, parliamo dei refuser attraverso ogni mezzo (eventi pubblici, social, graffiti) e adesso molti ci ascoltano, abbiamo il microfono in mano». «Il nostro messaggio è: siamo 7 milioni di israeliani e 7 milioni di palestinesi, nessuno è intenzionato ad andarsene. L’unico modo per andare avanti è insieme».
Un periodo spaventoso
Anche Einat Gelitz, 20 anni, è una giovane refusenik. Ha deciso di rendere pubblico il suo rifiuto settembre del 2022. «All’inizio pensavo di entrare nell’esercito come ogni ebreo israeliano che cresce qui, ma al liceo ho iniziato a impegnarmi di più nell’attivismo climatico e questo ha aperto la mia percezione sulle connessioni tra le varie lotte sociali. Attraverso l’attivismo climatico ho incontrato delle ragazze palestinesi cittadine israeliane, era la prima volta che conoscevo delle palestinesi della mia età e grazie a loro la mia prospettiva è completamente cambiata. Viviamo nello stesso Paese, ma viviamo vite opposte. Ho iniziato a informarmi di più sull’occupazione e a cercare di capire qual era il pezzo di storia mancante che, crescendo, non mi era stato raccontato».
«A 17 anni – racconta la giovane – ho capito che non sarei mai potuta entrare nell’esercito, e terminato il liceo ho avuto un incontro con una commissione per gli obiettori, che però non ha approvato la mia richiesta».
A 19 anni Einat, insieme ad altri tre ragazzi, ha annunciato pubblicamente la sua decisione di non arruolarsi. «Non sapevo se sarei rimasta dentro per due settimane o due anni», ricorda. «Alla fine sono stata rinchiusa per 87 giorni, in quattro carceri diverse e solo alla fine del mio quarto periodo di reclusione sono riuscita a incontrare di nuovo la commissione, ma gli altri tre ragazzi che hanno rifiutato con me sono rimasti dentro per più di 100 giorni».
I refuser, spiega la ragazza, sono tanti, «ma è un periodo spaventoso, non tutti hanno la capacità o il privilegio di farlo pubblicamente, perché li mette in pericolo. Ad oggi l’esercito non ha mai reso noto il numero di obiettori di coscienza».
Per Einat molte persone sono diventate più nazionaliste a causa della guerra e «quando si sentono in pericolo in un ambiente di odio e vendetta, sentono che non c’è un’alternativa pubblica reale al militarismo sionista. È un periodo molto difficile per noi attivisti palestinesi e israeliani, ma ci sono anche voci molto interessanti che chiedono un accordo per fermare il massacro, persone i cui familiari sono stati rapiti. Il massacro avvenuto il 7 ottobre non sarà risolto uccidendo decine di migliaia di palestinesi. Nessuna soluzione militaristica può essere una soluzione reale».
Attivismo
Iddo Elam, 17 anni, era già attivo contro l’occupazione quando ha deciso di non arruolarsi nelle Forze di difesa israeliane. «La mia obiezione è nata dall’attivismo e dall’incontro con i palestinesi. Una volta che li incontri, vai in Cisgiordania e vedi come l’esercito li sta demonizzando: non puoi fare a meno di non voler avere nulla a che fare con ciò. Vedi persone che ti offrono un caffè, ti sorridono, parlano con te, e ti chiedi: “Perché li stiamo opprimendo?”».
«Prima della Cisgiordania – prosegue Iddo – sono andato a Sheikh Jarrah, il quartiere palestinese a Gerusalemme Est insieme ai miei genitori. Entrambi sono di sinistra, ma non mi hanno mai insegnato a essere contro l’establishment e l’occupazione. Ci sono arrivato da solo, ho sviluppato il mio pensiero attraverso Internet e incontrando altre persone come Yeheli. A 15 anni volevo andare a Massafer Yatta, il centro della resistenza non violenta palestinese, e mio padre è venuto con me. Da allora ho iniziato a essere attivista. Non molti ragazzi della mia età sono attivisti».
«Durante la pandemia abbiamo avuto molte proteste contro Netanyahu qui in Israele e nella politica mondiale si parlava molto di Black Lives Matter. Queste due cose hanno scatenato qualcosa in me. Dopo aver partecipato a qualche protesta contro Netanyahu, ho incontrato il movimento Mesarvot. Mi interessava davvero: sono entrato in contatto con loro, sono venuto a qualche riunione e ho iniziato ad essere un vero attivista».
«Non ho idea – dice Iddo – di quanti giorni dovrò stare in prigione. Altri refusenik sono stati tra i 90 e i 180 giorni a periodi alterni. Se la guerra continua, però, potrebbero usarci come esempio e applicare sentenze più rigide. Da un lato non voglio rovinarmi la vita, dall’altro questa è la nostra lotta. Non ho paura di andare in prigione, non mi dissuaderà dal rifiuto di arruolarmi».
Apripista
Tal Mitnick è stato il primo israeliano ad annunciare pubblicamente il suo rifiuto dall’inizio della guerra. È uno degli attivisti più seri all’interno di Mesarvot. Giovane e bello, è un leader naturale particolarmente amato dai suoi compagni e inviso alle autorità israeliane. Ha coordinato la campagna “Youth Against Dictatorship” ed è uno degli autori della lettera dei refusenik scritta ad agosto. Ha rifiutato di arruolarsi il 26 dicembre ed è rimasto trenta giorni in prigione. Lo abbiamo incontrato nel giorno in cui è uscito dal carcere, per appena quattro giorni, prima di doversi ripresentare ed essere condannato a un altro periodo indefinito di reclusione.
«Sono stato fortunato ad avere una famiglia molto aperta riguardo al mio rifiuto», racconta. «Entrambi i miei genitori non hanno fatto il servizio militare, sono sempre stati molto impegnati politicamente. Erano entusiasti quando ho deciso di prendere posizione in un atto politico in cui credevo. Purtroppo molte persone intorno a me appoggiano quel che sta accadendo ora, ma conoscendo le mie posizioni hanno rispettato la mia decisione di non sostenere il massacro in corso, da entrambe le parti».
«A coloro che dicono che dovremmo lasciare questa terra – dice Tal – rispondo che questa è la mia casa, e non ho alcun legame con nessun altro luogo. Dovrebbe esserci una presenza ebraica in questa terra, ma non dovrebbe calpestare il diritto dei palestinesi ad autodeterminarsi; la nazione ebraica ha un legame con questo luogo, così come i palestinesi. Mesarvot mi ha dato una piattaforma per esprimere le mie idee nel mondo. Prima non pensavo davvero che l’attivismo funzionasse perché il mondo non avrebbe ascoltato un diciassettenne. Una volta entrato nel movimento, invece, ho capito quanto potere abbiamo in quanto giovani e quanto le persone ci ascoltino quando vedono cosa pensiamo. Da quel momento ho iniziato a credere che possiamo fare la differenza».
«Essere il primo refusenik a rendere pubblica la propria decisione – prosegue – è stata una scelta molto difficile. Era spaventoso; abbiamo visto quantità non documentata di arresti diretti puramente verso l’espressione politica, abbiamo visto molta violenza contro palestinesi e israeliani che esprimevano il proprio dissenso verso questa guerra. Ma è stato grazie alla repressione della polizia verso la libertà di parola che ho capito che era il momento giusto per farlo pubblicamente, perché volevo avere un impatto, e lo sto avendo, rifiutando di arruolarmi nel momento più critico degli ultimi decenni per Israele».
Tal torna dai suoi amici a festeggiare la libertà temporanea, mentre altri ragazzi del gruppo Mesarvot si preparano a un’azione notturna: tappezzare gli eleganti quartieri di Tel Aviv con poster e stencil, per ricordare ai cittadini israeliani che «I bambini di Gaza e di Sderot vogliono vivere».