Non succede poi così spesso che nello stesso anno siano chiamati alle urne Paesi ed entità sovranazionali che, oltre a ricoprire una notevole importanza a livello globale, sono protagonisti di quel dato momento storico e politico. Che sia qualcosa di raro o di frequente, è ciò che ci attende in vista del 2024, anno in cui sia Stati Uniti che Russia saranno chiamati al voto per le elezioni presidenziali e in cui nel vecchio continente saremo chiamati a eleggere i nuovi rappresentanti del Parlamento europeo, ma non solo. Già a gennaio, ad esempio, si voterà per eleggere presidente e parlamento di Taiwan, e nel corso dell’anno saranno chiamati al voto quasi quattro esseri umani su dieci in numerosi e importanti Paesi dal Messico al Sudafrica, dal Pakistan alla Corea del Sud fino al Venezuela, ultimo protagonista in termini cronologici di una crisi per il confine con la vicina Guyana, risolta per ora con un incontro tra i leader.
Le incognite americane
Un appuntamento particolarmente atteso, il voto che potrebbe risultare più decisivo di altri in un momento storico come questo, non sarà il primo in ordine cronologico e potrebbe nei prossimi mesi influenzare e al tempo stesso essere influenzato da numerosi avvenimenti politici, bellici e diplomatici. Si tratta ovviamente delle elezioni presidenziali americane, in programma il prossimo 5 novembre, intorno a cui girano ancora oggi parecchie incognite. La prima di queste è legata alle candidature, per quanto paradossale, dal momento che i democratici esprimono l’attuale inquilino della Casa bianca, Joe Biden, ancora al primo mandato, e sul fronte dei repubblicani Donald Trump conduce con ampio margine tutti i sondaggi relativi alle primarie. Eppure, nulla sembra essere scontato.
Biden fu eletto nel 2020 in una cornice che lasciava intendere che l’allora settantasettenne sarebbe stato presidente per un solo mandato e che, finiti i quattro anni, avrebbe lasciato la candidatura alla sua vice, Kamala Harris, scelta anche lei in quest’ottica. La popolarità di Harris, tuttavia, non è decollata e le numerose emergenze di questi anni non hanno lasciato molto spazio alle prospettive di staffetta. Biden ha quindi annunciato lo scorso aprile che ha intenzione di correre nuovamente l’anno prossimo, e di volerlo fare di nuovo con Kamala Harris come vice, ma non sono mancati gli osservatori che hanno sollevato la questione sull’età di Biden, che, se eletto nuovamente concluderebbe il secondo mandato a 86 anni. Dall’altra parte, Trump è decisamente in testa in tutti i sondaggi per le primarie repubblicane, ma su di lui pendono attualmente ben quattro incriminazioni giudiziarie, da quello sul presunto pagamento dell’attrice pornografica Stormy Daniels per tenere nascosto un loro presunto rapporto sessuale, a quello dei documenti governativi tenuti nella residenza di Mar-a-Lago, fino al più grave procedimento sull’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 e all’ultimo in ordine cronologico, la presunta pressione per sovvertire i risultati elettorali in Georgia nel 2020. Procedimenti che potrebbero intralciare la sua corsa verso il ritorno alla Casa Bianca.
Tutto può succedere
In questo clima circolano voci di nomi alternativi, con lo stesso Biden che ha lasciato intendere che in caso non ci fosse Trump, potrebbe anche non correre. Ma allora chi? Se i repubblicani dovranno comunque affrontare le primarie, dove correranno anche nomi di alto profilo come il governatore della Florida Ron DeSantis e l’ex ambasciatrice Onu Nikki Haley, per i democratici bisognerebbe fare una scelta ex novo tutt’altro che semplice.
Intanto, i sondaggi attribuiscono in ogni caso un vantaggio variabile in favore dei repubblicani, ma va detto che manca quasi un anno al voto e le cose potrebbero cambiare. Si è visto anche alle elezioni di Midterm del 2022, dove i democratici hanno ottenuto un risultato migliore del previsto.
Ma la vera incognita è il rapporto tra il voto e la situazione internazionale, in modo particolare rispetto ai conflitti in corso a Gaza e in Ucraina. L’amministrazione Biden ha offerto ampio sostegno a Israele nelle operazioni iniziate in seguito agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, ma al tempo stesso ha chiaramente messo in guardia Netanyahu dai potenziali errori nella gestione del conflitto e ha duramente criticato l’attuale composizione del governo, di cui fanno parte partiti estremisti religiosi. In attesa di capire come Washington gestirà questa fase, si teme che tra i giovani e tra gli americani di origine araba – strati di popolazione generalmente vicini ai democratici – il sostegno statunitense a Israele possa alienare simpatie verso Biden, un dato che potrebbe essere determinante in alcuni stati in bilico.
Altra storia invece è quanto sta accadendo in Ucraina, con settori del partito repubblicano sempre più tiepide verso le ampie spese per il sostegno militare a Kiev. Tuttavia, il conflitto, in una situazione di stallo sul campo, non sembra avere vie d’uscite facili e il rischio è che uno stop al sostegno possa vanificare quanto investito finora e permettere alla Russia di raggiungere, magari in un lasso di tempo più dilatato, i suoi obiettivi originari. Trovare una soluzione condivisa e nel quadro del diritto internazionale non sembra essere un compito semplice, e potrebbe essere una delle sfide della diplomazia Usa nei prossimi mesi, nonché un argomento di campagna elettorale. Con che esiti, è da scoprire.
Tra guerra e sovranismo
Tra il 6 e il 9 giugno i cittadini dei 27 Paesi dell’Unione europea saranno chiamati a eleggere i membri del parlamento in un clima, anche in questo caso, su cui peserà molto il conflitto in Ucraina che geograficamente e non solo li riguarda da molto più vicino. A questo si aggiungeranno temi che tradizionalmente riguardano il voto europeo, dalle questioni migratorie a quelle economiche in quello che, tra l’altro, è il primo voto del genere dopo il Covid e le misure conseguenti, oltre che dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina.
In Europa si sta assistendo in generale da anni a un calo dei partiti socialdemocratici tradizionali in favore di forze di altro genere, in molti casi euroscettiche: un meccanismo che potrebbe portare, una volta eletto il nuovo Parlamento, a una Commissione europea con una maggioranza diversa da quella che oggi sostiene Ursula Von der Leyen, sempre a guida Popolare ma spostata a destra e che potrebbe essere retta in primis da un accordo con i Conservatori dell’Ecr presieduto da Giorgia Meloni. Quest’ultima forza europea, di cui fa parte anche Fratelli d’Italia, è molto forte in alcuni Paesi dell’est, a partire dalla Polonia, e potrebbe diventare la terza forza più numerosa del prossimo parlamento europeo, scavalcando i liberaldemocratici di Renew, col partito della Meloni che potrebbe avere il peso maggiore nella pattuglia. Ma non è tanto il peso dell’Ecr che potrebbe influenzare le scelte politiche europee e dei singoli Paesi, quanto quella di forze più a destra, come i tedeschi dell’AfD, dati addirittura al secondo posto in tutti i sondaggi elettorali sul voto in Germania.
In passato le elezioni europee hanno visto partiti diversi da quelli tradizionali ottenere risultati sorprendenti: dagli euroscettici dell’Ukip nel Regno Unito (quando era ancora nell’Ue) ai Verdi fino al Partito Pirata. Nell’avvicinarsi a questa tornata, tra gli ultimi Paesi a votare in ordine cronologico ci sono stati Slovacchia e Olanda, dove hanno vinto i socialisti contrari al sostegno all’Ucraina guidati da Robert Fico nel primo caso e i conservatori euroscettici e anti-immigrati di Geert Wilders nel secondo. Due casi che mostrano come da diversi angoli d’Europa ci si aspettino risposte su alcuni temi cruciali del momento e come questo voto potrebbe essere fondamentale proprio per quanto riguarda argomenti come i migranti, la guerra in Ucraina e la crisi energetica. Con sullo sfondo, l’attuale situazione internazionale, a partire dalla prospettiva di un allargamento Ue ai Balcani, alla Moldavia e all’Ucraina: quest’ultimo, tuttavia, non potrà avvenire senza la fine del conflitto in corso e senza un lavoro di anni perché Kiev raggiunga i rigidi obiettivi fissati per l’ingresso nell’Unione. Un tema che farà discutere, come farà discutere uno spettro che aleggia per il continente: il rischio che una vittoria di Trump negli Stati Uniti a novembre possa portare a un graduale disimpegno di Washington dal teatro europeo, costringendo i Paesi dell’Unione ad affrontare un tema tutt’altro che secondario, quello della difesa in un momento in cui i venti di guerra sono più che mai vicini.
La prova di forza di Putin
Se c’è una cosa lontana dall’essere in dubbio è chi sarà il vincitore delle prossime elezioni presidenziali in Russia. In programma per il prossimo 17 marzo, vedranno ovviamente Vladimir Putin in corsa per il terzo mandato consecutivo e quinto mandato in assoluto (intervallati da un mandato come Primo ministro quando ancora vigeva il limite dei due mandati consecutivi), e come per le elezioni del 2018 la concorrenza sembra destinata a non metterlo particolarmente in difficoltà, soprattutto dopo l’ulteriore stretta sui media indipendenti in seguito all’inizio del conflitto in Ucraina.
Proprio la guerra in Ucraina, tuttavia, metterà queste elezioni sotto la lente di ingrandimento non tanto per l’esito che ci si attende nelle urne, quanto per l’influenza che questo voto avrà sull’opinione pubblica e sul proseguimento del conflitto, attualmente in fase di stallo e in un abbassamento di intensità dovuto alla stagione invernale.
Putin si è presentato all’opinione pubblica come quasi costretto a ricandidarsi. In un video diffuso dal Cremlino, parlando con un colonnello, Putin dice di non avere altra scelta se non quella di tornare nuovamente in campo alle prossime elezioni. Quando si andrà al voto, salvo sorprendenti interruzioni, il conflitto in Ucraina avrà superato i due anni dal fatidico 24 febbraio 2022, e l’obiettivo per Putin da presidente di una Russia in guerra sarà quello di consolidare ulteriormente la propria leadership, cercando di superare il 77,5 per cento dei consensi ottenuto nel 2018.
Ma la guerra in Ucraina non influirà solo da questo punto di vista. La Russia, infatti, chiamerà alle urne non solo la Crimea, come già avvenuto nel 2018, ma anche le quattro oblast ucraine annesse unilateralmente da Mosca, in un gesto che potrebbe rendere ancora più acuto lo scontro in atto.
Taiwan: la Cina alla finestra
Non saranno però solo Stati Uniti, Unione europea e Russia ad andare al voto nel 2024. Un test che arriverà subito all’inizio dell’anno riguarda un altro Paese al centro di molte attenzioni internazionali, ovvero Taiwan, chiamato alle urne il 13 gennaio.
La delicata situazione dell’isola rappresenta un tema cruciale nei rapporti tra Cina e Stati Uniti, con Pechino che in maniera sempre più costante cerca di isolare Taipei nel tentativo di annetterla quanto prima: le prospettive del futuro dell’isola passano anche dal voto.
Lo scontro sarà soprattutto tra il Dpp, attualmente al governo, una forza politica che difende strenuamente l’indipendenza dell’isola e l’allontanamento da Pechino, e il Ttp e il Kmp, forze dall’approccio più dialogante verso la Repubblica popolare cinese. Con quest’ultima in ogni caso determinata a raggiungere il suo obiettivo e che attende anche il voto negli Stati Uniti per decidere che atteggiamento adottare sulla questione. La situazione nello Stretto infatti si evolverà nel futuro prossimo anche in base al voto del 13 gennaio.