Appena nominato primo ministro palestinese dopo le elezioni del 2006, il leader di Hamas Ismail Haniyeh si disse pronto a resistere a Israele mangiando, se necessario, «sale e zaatar», olio d’oliva ed erbe essiccate. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti: prima la guerra civile con Fatah, poi il golpe a Gaza, quindi l’avvicinamento all’Iran e infine l’ascesa alla leadership del gruppo terroristico al posto del capo storico Khaled Mashaal. Oggi Haniyeh non risiede più nella striscia, dove la popolazione deve scegliere se morire di fame e sete o rischiare la vita sotto le bombe israeliane, ma insieme ai vertici di Hamas vive nel lusso tra la Turchia e il Qatar.
Tutto questo è possibile grazie a un impero economico da quasi 700 milioni di euro costruito negli ultimi vent’anni dall’organizzazione e composto da una rete di società estere, conti correnti, donazioni e persino investimenti in criptovalute, con cui Haniyeh e i suoi finanziano le attività militari e di propaganda nella striscia e in Cisgiordania. Un patrimonio che l’invasione israeliana di Gaza non scalfisce.
Canali rischiosi
Sebbene nell’aprile scorso abbia annunciato ufficialmente il ritiro da questo genere di investimenti per le troppe perdite subite, il gruppo palestinese è stata la prima organizzazione terroristica a utilizzare le criptovalute per finanziare le proprie attività. Secondo un rapporto della società di ricerca Trm Labs, almeno dall’inizio del 2019 le Brigate Izz al-Din al-Qassam, il braccio militare di Hamas, hanno scelto questo metodo come fonte alternativa di finanziamento. Allora, come riportato dal Wall Street Journal, l’uomo che si occupava di gestire le donazioni per il gruppo era Hamid Ahmed Khudari, ucciso in un raid israeliano nel maggio 2019 e molto vicino al leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar. Costui sfruttava il sistema “hawala”, una rete informale molto diffusa in Medio Oriente per i trasferimenti di denaro e il rimpatrio delle rimesse degli emigrati, per incassare denaro a favore dell’organizzazione, specie dall’Iran (da cui arrivano ogni anno decine di milioni di dollari).
Dopo la sua morte gli è succeduto un uomo d’affari palestinese, Zuhair Shamlakh, che ha cominciato a investire in valute virtuali. Il principio era il medesimo ma stavolta gli operatori all’estero del sistema “hawala” si trovarono a gestire token digitali piuttosto che contanti e bonifici.
Non solo: l’organizzazione cominciò anche a invitare i propri simpatizzanti a effettuare donazioni in Bitcoin sul suo canale Telegram, per poi allestire delle vere e proprie raccolte fondi sul sito-web alqassam.net. Finché, nel 2020, le autorità israeliane e statunitensi non sequestrarono una rete di portali online legati alle Brigate al-Qassam e 150 conti in criptovalute, per lo più Bitcoin.
Ma questo non fermò Hamas, anzi. Negli ultimi anni, l’Ufficio nazionale israeliano per il contrasto al finanziamento del terrorismo (Nbctf) ha sequestrato almeno altri 40 conti simili, identificando una galassia di agenzie di cambiavalute e piattaforme, ancora attive a Gaza, tra cui figurano la Dubai Money Co. For Exchange, la Buy Cash Money & Money Transfer Company, l’al-Wefaq Co for Exchange, di proprietà del fratello di Khudari, e l’al-Mutahadun For Exchange, gestita proprio da Shamlakh.
Sebbene la stragrande maggioranza dei fondi sequestrati fossero in criptovaluta Tether sul sistema blockchain Tron, questi soggetti si sono avvalsi anche, in vari momenti, di Bitcoin e Dogecoin e di piattaforme come la russa Garantex e di Binance, che però ha collaborato con le autorità israeliane per identificare i conti vicini al gruppo. Nessuno sa quanti fondi abbia ricevuto Hamas attraverso le criptovalute prima di abbandonare questo sistema ma le stime della società di consulenza israeliana BitOK parlano di quasi 41 milioni di dollari passati attraverso questo genere di conti tra il 2020 e il 2023. Non male per un gruppo sottoposto a sanzioni perché considerato un’organizzazione terroristica da Stati Uniti, Regno Unito e Unione europea. Ma non è l’unica fonte di reddito usata dal gruppo.
La galassia finanziaria
Negli anni infatti, i vertici di Hamas hanno costruito un impero finanziario al di fuori della striscia di Gaza del valore di quasi 700 milioni di euro. All’interno dell’organizzazione lo chiamano il “portafoglio segreto” ma altro non è che il tesoro di Hamas. Si tratta di una rete di una quarantina di società estere, soprattutto edili e immobiliari, con sede in Turchia, Qatar, Algeria, Emirati Arabi Uniti e Sudan.
Tutto è cominciato, secondo un’inchiesta del quotidiano tedesco Welt am Sonntag, una ventina di anni fa quando il gruppo ha iniziato a investire i fondi delle donazioni in società estere per crearsi un salvagente nel caso i suoi sponsor storici, l’Arabia Saudita prima, il Qatar, la Turchia e l’Iran poi, decidessero di interrompere gli aiuti finanziari all’organizzazione.
Il centro di queste attività si trova in Turchia, dove risiede il capo dell’Ufficio finanziario di Hamas, Zaher Ali Moussa Jabarin, uno degli oltre mille prigionieri palestinesi scambiati nel 2011 da Israele con il soldato Gilad Shalit, sequestrato dal gruppo cinque anni prima. Sanzionato nel 2019 dagli Stati Uniti, Jabarin – che risponde direttamente a Salah al-Arouri, l’uomo di Hamas in Libano – possiede un passaporto del Qatar e viaggia spesso per affari nel Paese dei cedri, nell’emirato e in Iran. Il suo ruolo principale è avviare attività economiche, ottenere visti e acquistare immobili a scopo commerciale in Turchia. Ma soprattutto supervisionare gli investimenti nel Paese.
Il gioiello del gruppo qui è la Trend GYO, sottoposta dal 2019 a sanzioni da parte degli Usa perché accusata di nascondere e riciclare fondi per Hamas. Malgrado questo però continua a operare, è ancora iscritta nel listino della Borsa turca e l’anno scorso ha anche registrato un utile netto di quasi 2 milioni di euro. Nel Paese operano anche la Redin Exchange, accusata dal Tesoro americano di aver gestito il versamento di decine di milioni di dollari al gruppo terroristico, e la Smart Import Export, che condividono un unico indirizzo a Istanbul e sono entrambe riconducibili a Isma’il Tash, vice amministratore delegato della prima e proprietario della seconda nonché, secondo Washington, «attore chiave in molti trasferimenti di denaro dall’Iran a Hamas».
In Turchia, il gruppo può anche contare su decine di conti correnti aperti in euro e in dollari presso gli istituti di credito Türkiye Finans, Albaraka, Kuveyt Türk, Vakif Katilim e Ziraat Katilim. Banche che, secondo il quotidiano tedesco, per trasferire questi fondi si avvalgono poi di istituti europei come la Deutsche Zentral-Genossenschaftsbank di Düsseldorf, la Unicredit Bank di Monaco di Baviera e le filiali a Francoforte di Deutsche Bank, Commerzbank e Citibank.
Non solo: secondo il centro di ricerca israeliano Meir Amit, per ricevere fondi il gruppo si avvale anche della kuwaitiana Burgan Bank, che possiede sia la Redin Exchange che la Tekfenbank a Cipro nord. A questa si aggiungono una serie di società di cambiavalute come la Abed al-Razzak Exchange, la Roua for Exchange, la Touma Foreign Exchange Ltd e la Ra’a Money Exchange Co. Ltd, tutte attive in Libano.
La galassia economica di Hamas però arriva anche in Africa, dove opera un’altra persona sanzionata dagli Stati Uniti: Abdelbasit Hamza Elhassan Mohamed Khair, un finanziere che negli anni ha trasferito, secondo il Tesoro Usa, quasi 20 milioni di dollari al gruppo terroristico, anche in virtù dei suoi contatti con il membro del politburo dell’organizzazione palestinese, Mahir Jawad Yunis Salah. A questo scopo, Hamza ha sfruttato una rete di grandi aziende in Sudan per riciclare denaro e reperire fondi per Hamas, compresa la Al Rowad Real Estate Development di Khartoum, anch’essa sottoposta a sanzioni. Un ruolo simile lo interpreta invece in Algeria un altro personaggio sanzionato dagli Usa: Aiman Ahmad Al-Duwaik, membro di diversi consigli di amministrazione di società finanziarie, attraverso cui è accusato di aver favorito il finanziamento delle attività di Hamas. In particolare delle Brigate Izz al-Din al-Qassam e delle iniziative sociali e di propaganda dell’organizzazione nella striscia, ma non solo.
Vite da re
Alcuni di questi fondi infatti servono anche a mantenere i vertici di Hamas, che per lo più vivono all’estero, spesso a Doha, in Qatar, o in Turchia. Qui non si vive certo come a Gaza. Se gli oltre 2 milioni di palestinesi della striscia devono affrontare la mancanza di acqua potabile, cibo, elettricità, carburante e persino della sicurezza personale, il grosso del gruppo dirigente dell’organizzazione risiede in hotel di lusso, partecipa a eventi mondani, come l’iftar organizzato quest’anno da Hamas al Club diplomatico di Doha, e viaggia con facilità e agio nella regione.
Il leader Ismail Haniyeh, 61 anni e padre di 13 figli, è stato spesso fotografato a bordo di jet privati, in alberghi a quattro stelle e in ristoranti di lusso, come l’ex leader Khaled Mashaal, patito dello sport e del ping pong, e l’astro nascente Abu Marzouk.
Ben prima di lasciare la striscia nel 2019, Haniyeh, nato in un campo profughi, fece scalpore per aver acquistato nel 2010 un terreno edificabile sul mare a Gaza per quasi quattro milioni di dollari, intestando poi diversi appartamenti e ville ai suoi figli. Non solo: secondo quanto riportato nel dicembre scorso dal portale saudita con sede nel Regno Unito Elaph, il figlio Maaz – soprannominato a Gaza Abu Al-Iqarat o “padre del settore immobiliare” perché possiede numerosi edifici nella striscia – ha ottenuto un passaporto turco con cui può viaggiare in tutta la regione e qualche mese prima l’altro figlio Hazem avrebbe avuto il permesso di lasciare il territorio costiero con tutta la famiglia. Tutto questo mentre per i palestinesi è quasi impossibile uscire dalla striscia e la stragrande maggioranza di loro vive in condizioni di estrema povertà.
Gli intoccabili
Niente di tutto questo però viene scalfito dall’invasione di Israele a Gaza, diretta a «distruggere Hamas». Le migliaia di morti civili nella striscia infatti non mettono in pericolo l’impero economico con cui il gruppo terroristico acquista armi, finanzia azioni violente e conquista il consenso della popolazione. A dire il vero, come nel caso delle criptovalute e delle società all’estero, nemmeno le sanzioni e l’intervento delle autorità di regolamentazione sono sufficienti.
Come ammesso nel 2021 da un alto funzionario di Hamas al Wall Street Journal, il gruppo continua a modificare e a evolvere le proprie strategie di raccolta fondi man mano che vengono imposte ulteriori restrizioni. Un esempio? Negli ultimi mesi, i gruppi a sostegno di Hamas hanno smesso di pubblicare online gli indirizzi a cui inviare le donazioni in criptovaluta e si sono invece rivolti a mixer e ad ancor più sofisticate piattaforme per l’elaborazione dei pagamenti, ospitandole sui propri siti-web. Non solo: a ogni azione violenta, secondo Trm Labs, corrispondeva un aumento delle donazioni: un bel disincentivo alla pace.
Ma non è solo una questione tecnica. Come ha spiegato a France24 il premier dell’Anp Mohammad Shtayyeh, l’obiettivo di Israele di distruggere il gruppo non è realistico. «Hamas è un’idea, non è solo una struttura militare o un’organizzazione a Gaza», ha sottolineato. «Hamas è in Cisgiordania, Libano e Siria, la leadership di Hamas è in Qatar e ovunque». Il consenso dell’organizzazione infatti, malgrado il malcontento, travalica la striscia, arrivando anche nei territori che non governa ed è inestricabilmente legato alle sue attività violente, finanziate dal suo impero finanziario.
Secondo un sondaggio condotto in Cisgiordania tra il 31 ottobre e il 7 novembre dall’Arab World for Research & Development (Arwad) dell’Università di Birzeit, la maggioranza degli intervistati nella West Bank ha un’opinione positiva di organizzazioni come le Brigate Izz al-Din al-Qassam (89%), la Jihad islamica (84%), le Brigate dei Martiri di al-Aqsa (80%) e Hamas (76%). Come dire che conquistare Gaza non significa conquistare i palestinesi. Di certo, non comporta smantellare Hamas, senza intaccare il tesoro che alimenta le sue iniziative.