Presidente Rama, il protocollo d’intesa siglato da Lei e dal presidente Meloni è riuscito in un miracolo politico: far infuriare la destra albanese e la sinistra italiana. E forse anche gli euroburocrati. Che cosa avete fatto mai?
«Il mio problema non sono mai le polemiche, che dalle nostre parti sono pane e vino quotidiano della vita politica, ma capire sempre quale sia la cosa giusta. Poi bisogna fare tutto il possibile per farla, quella cosa. E per farla bene. Alcune volte ciò che ti sembra giusto quando lo avevi deciso, dopo non si rivela così giusto. Altre volte, pur rimanendo giusto averlo scelto, non si riesce a farlo bene. Nel caso del Protocollo Italia-Albania, io mi auguro non solo che sia la cosa più giusta da fare, ma anche che sia una cosa fatta bene. Si tratta di un’operazione certamente non del tutto facile. Non è mai stata tentata prima, in questo modo. Ma se funzionerà così come è stata come immaginata e costruita, allora sarà veramente qualcosa di buono. E per più di un motivo».
Quali, presidente? Nelle sue dichiarazioni seguite alla firma dell’accordo, Lei ha detto: «Lo abbiamo fatto per aiutare l’Italia». C’è chi non ci crede. Questa intesa aiuta solo l’Italia o vuole anche correre in soccorso di tutta l’Europa, paralizzata dinanzi al fenomeno dell’immigrazione, che l’Ue non sa né comprendere né affrontare?
«Io sarei cauto e ci andrei piano a pensare che questa cosa possa aiutare anche l’Europa. Certo, se va bene per l’Italia, va bene anche per l’Europa. Ma prima sarà il caso di far funzionare bene l’accordo stilato con il vostro Paese e osservare con attenzione cosa ci può insegnare sulla questione dei flussi migratori, che è un problema di una complessità enorme. Mi pare indubitabile, però, che ad oggi il fenomeno dell’immigrazione rimane privo di una soluzione convincente e condivisa da tutti gli Stati europei. Tutti noi comprendiamo sempre meglio la ferocia delle traversate, ma non riusciamo a far altro che giocare in difesa. Cerchiamo di guadagnare tempo. Un po’ come se fossimo convinti che un giorno questo problema si risolvesse da solo. Intanto gli assalti, si fanno sempre più massicci».
L’emigrazione è un fatto epocale. Lei ritiene che esista un diritto delle persone ad andare ovunque ritengano, alla ricerca della loro felicità, o prevale il diritto delle nazioni di chiudere le loro comunità a chi non ne faceva parte?
«Questa è una assai complicata equazione, un nodo difficile da sciogliere. Mi sembra, però, che la cosa più grave sia proprio la mancanza di un’Europa capace di essere compatta, un’Europa che sappia andare all’attacco per affrontare a viso aperto questo fenomeno. Credo che non si possa discutere il diritto di ogni essere umano di questa terra di andare ovunque voglia e ovunque pensi di poter vivere meglio. Negarlo vuol dire distruggere l’anima stessa dell’umanità. D’altro canto, però, non voler mettere in discussione questo diritto non serve a risolvere niente. Né può risolvere nulla chiudere le nostre comunità a chi non ne fa (o faceva) parte. Ci vuole ben altro. E noi stiamo per finire in fondo al mare sempre più mosso delle ondate migratorie».
Perché?
«La demografia ci offre una prospettiva agghiacciante per il futuro del Europa. Il Vecchio Continente rischia una lunga e dolorosa agonia, sociale ed economica, se non riuscirà a rimediare alla sempre più evidente mancanza di giovani e di manodopera. I tentativi dei governi di chiudere le frontiere di ciascun singolo Paese, in un mondo che cambia con una velocità che solo qualche decennio fa esisteva solo nei film di fantascienza, mi fanno pensare a una vignetta che circolava ai tempi della Perestroika».
Quale?
«C’era una specie di Titanic, rosso. Tutti i passeggeri guardavano immobili nella direzione dell’iceberg, mentre, in una piscina del transatlantico c’era un tizio che stava su un coccodrillo di gomma e remava con grande accanimento nella direzione opposta. Lo stesso succede a noi oggi».
E allora come si risolve la questione immigrazione, se non bastano i muri o i centri di accoglienza che farete anche nel suo Paese?
«Glielo ripeto: è una questione alla quale si può dare solo una risposta tutti insieme. Nessun singolo Stato può affrontarla da solo, perché il problema è più grande anche del più grande Paese. I muri e i centri d’accoglienza servono. Ma servono solo se sono parte di un disegno molto più grande. Se manca quel progetto politico, prima o poi i muri o i centri di accoglienza non solo saranno inutili, ma diventeranno addirittura controproducenti. Lo sa bene l’Albania».
Perché?
«Veda, nel suo piccolo l’Albania ha vissuto un’esperienza positiva, combinando muro e accoglienza: da un lato un muro verso un’immigrazione illegale, dall’altro un’accoglienza benevola verso un l’immigrazione che seguiva le regole che ci eravamo dati. Non è passato troppo tempo, ma era l’epoca in cui noi eravamo interessati dalle azioni degli scafisti e del flusso di traffico clandestino di profughi non solo albanesi. Ce n’erano di tante altre nazionalità, inclusi addirittura quella cinese. Persone che partivano da Valona verso l’Italia attraverso il canale di Otranto. Erano i tempi, da voi, del governo di Massimo D’Alema, che si mosse con un’idea molto chiara. Da una parte un’operazione congiunta italo-albanese in mare contro gli scafisti: li inchiodammo grazie al radar installato sull’isola di Saseno, in Albania. Dall’altra, con una serie di notevoli agevolazioni date a chi chiedeva dei visti di lavoro in Italia».
Bastone e carota, insomma?
«Esatto: agli scafisti (non perbene) il bastone e agli uomini e alle donne (perbene) che volevano venire a lavorare, la carota. Questo diede fine all’immigrazione illegale».
È un sistema che si può replicare?
«Ripetere quest’operazione su vasta scala nel Mediterraneo è, evidentemente, un’impresa gigantesca. Ma il concetto da perseguire e quello».
Lei è uno dei leader del Partito socialista europeo: la sinistra nel Vecchio Continente perde terreno. Dove sbagliano i suoi colleghi? C’è ancora spazio per la sinistra, classicamente intesa?
«Questa è una domanda trappola e lei non mi frega!».
Suvvia, mi risponda.
«Scherzi a parte, io non sono nessuno per dare lezioni alla sinistra del Vecchio Continente. E poi la sinistra oggi non è una sola. Ci sono tante sensibilità e ci sono altrettanti leader. Donne e uomini con spessori, idee e capacità di impatto diverse. E, sempre per non cadere nel suo tranello, le dirò che, dall’altra parte, non mi sembra che la destra avanzi o porti novità convincenti. Mi pare, invece, che la politica attraversi un terreno condiviso, che diventa ogni momento più scivoloso per tutti. La vignetta della Perestroika che ho citato prima potrebbe servire anche in questo caso. Sia per gli uni che per gli altri».
L’Albania, sotto la sua guida, conosce una stagione di grande espansione e si dirige a larghi passi verso l’Unione europea. A che punto è la procedura d’ingresso e cosa cambierà per il suo Paese nell’Ue?
«Abbiamo fatto dei progressi importanti, è vero. Ma guai a pensare che sia tutto oro quello che luccica. Così come è un errore pensare che il processo delle riforme sia irreversibile. Molto rimane da fare e, soprattutto, bisogna consolidare i passi in avanti che abbiamo fatto. L’Albania di oggi non ha paragoni con quella di ieri, ma soprattutto non deve reggere neanche il paragone con l’Albania che voglio per domani. Appena trent’anni fa abbiamo avuto, per la prima volta nella storia, la possibilità di scegliere liberamente da che parte stare. Lo abbiamo fatto con coraggio e proseguiremo nel percorso che abbiamo scelto. Quando arriveremo, spero presto, a sedere al tavolo del Unione europea, lo faremo a testa alta. Entrare nell’Ue è il sogno di tutta la nostra nazione».
Presidente Rama, i Balcani sono una polveriera. Le contrapposizioni mai sopite covano come fuoco sotto la cenere. Che scenari paventa?
«Anche su questo fronte abbiamo fatto passi in avanti impensabili fino a dieci anni or sono. Fu allora che, per impulso della cancelliera Angela Merkel, per la prima volta nella storia balcanica, fummo invitati a rappresentare i sei Paesi non Ue dell’area balcanica, per parlare di cooperazione regionale. Da quel giorno tantissime cose sono cambiate in positivo, ma i rischi di tornare indietro ci sono ancora e il quadro internazionale davvero non aiuta».
La guerra in Ucraina non accenna a finire. Il gigante russo, pur con le sanzioni e la evidente intensità del conflitto, non cede. Come finirà quella guerra? E quando?
«Io purtroppo non ho la palla di cristallo, ma nessuno, tranne Vladimir Putin, ha pensato che il conflitto ucraino sarebbe durata poco. Non serve un’intelligenza incredibile, inoltre, per capire che più la guerra continua, più si allontanano le prospettive per un accordo di pace».
Parallelamente, mentre scriviamo queste righe, il Medio Oriente è in fiamme. La situazione è grave, ma da 75 anni. Nel forum per la pace di Parigi lei ha ribadito il sostegno a Israele, mostrando preoccupazione per il disastro umanitario di Gaza. Sono formule un po’ retoriche. Chi decide quale è il limite del diritto alla difesa di Israele?
«A me dispiace molto che l’orrore perpetrato da Hamas venga così relativizzato da tanti commentatori in Occidente. Troppo spesso sembra che la causa di questa guerra sia imputabile a Israele. Sulla reazione di Gerusalemme, le chiedo: quale Stato, quale capo di governo avrebbe potuto reagire diversamente se fosse stato attaccato da una così selvaggia furia assassina come quella del 7 ottobre? Comportamenti indescrivibili, realizzati all’interno delle proprie frontiere con una crudeltà che non so commentare. Ma ci siamo già scordati dei video fatti dagli stessi carnefici con delle bodycam? Gioivano come i cannibali quando mangiano carne umana!».
Dimentica gli innocenti sotto le bombe a Gaza?
«Niente affatto! Il calvario della popolazione di Gaza è diventato insopportabile, ma certamente questo non avviene solo a causa del contrattacco dell’esercito israeliano. Non possiamo dimenticare che una delle cause è Hamas, che ha trasformato in scudi uomini, donne e bambini. Hamas non ha nessuno scrupolo nel vedere morire i suoi. Non solo: sono loro stessi a sparare in testa ai palestinesi che cercano di uscire dalla zona di fuoco».
Come se ne esce?
«La mia umile opinione è che serva un immediato “cessate il fuoco”, una liberazione contestuale degli ostaggi, seguita dall’invio di una forza internazionale con mandato Onu, composta dalla Turchia e dai rappresentanti dei Paesi della Lega Araba. Solo questo consentirà di garantire una transizione verso il controllo politico e civile dell’Autorità Palestinese. Una cosa però, deve essere chiara e indubitabile».
Quale, presidente?
«La struttura e l’infrastruttura di Hamas debbono essere smantellate. Con ogni mezzo che si renda necessario».
Due popoli, due Stati, ripetono tutti i suoi colleghi europei e occidentali. Ma lo Stato entro il quale far posto ai palestinesi quale dovrebbe essere, visto che la West Bank è occupata, Gaza rasa al suolo e nessuno, né arabi né israeliani cede un solo metro quadro ai “fratelli” palestinesi?
«La parte migliore e più vantaggiosa nel fare il primo ministro dell’Albania è che non devi risolvere i problemi del mondo. Detto questo, le chiedo il favore di fermarsi qui, prima che io corra il rischio di sembrare patetico agli occhi dei suoi lettori».