Da quando lo scorso 7 ottobre gli uomini di Hamas hanno fatto irruzione nel sud di Israele, uccidendo almeno 1.400 persone e sequestrandone un numero imprecisato, la risposta dello Stato ebraico procede incessante con raid aerei sulla striscia di Gaza che si ripetono quotidianamente e con l’invito ai civili di lasciare la zona settentrionale del territorio palestinese, facendo intendere un imminente quanto inevitabile intervento via terra intorno al quale molti in tutto il mondo si stanno ponendo numerosi interrogativi.
Israele ha infatti fatto capire in modo molto chiaro che l’obiettivo della sua operazione sarà quello di eliminare Hamas e i suoi vertici, ma, per quanto questo elemento sia estremamente chiaro, ci sono delle domande che in tanti si stanno facendo. L’ultimo è stato il presidente statunitense Joe Biden, che al programma della Cbs 60 minutes ha dichiarato che Israele ha il dovere di rispondere, ma un’occupazione di Gaza sarebbe «un grosso errore».
Gli Stati Uniti sanno bene, e sulla propria pelle, quanto in molti interventi militari i problemi, più che nell’azione stessa, possono arrivare nella gestione delle fasi successive, come Afghanistan e Iraq dimostrano. Ma sempre Biden, con un tweet che fa eco a molte voci che si sono levate da tutto il mondo in questi giorni, ha scritto chiaramente come Hamas non rappresenti la maggior parte dei palestinesi, e questo va tenuto a mente: anche alla Casa Bianca sono evidenti i timori di un alto numero di vittime civili e di tutto quello che ciò comporterebbe.
A tale riguardo, Gilad Erdan, ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, ha chiarito che il suo Paese non ha alcuna intenzione di occupare Gaza: un fatto che da un lato sgombra i dubbi dalle perplessità palesate da Biden ma, al tempo stesso, pone punti interrogativi sul futuro del territorio palestinese in seguito all’intervento.
Chi amministrerà e si occuperà della Striscia se Israele riuscirà a mettere fuori gioco Hamas, che lì governa dal 2007? Questo aspetto non va sottovalutato, ma al momento non sono emersi obiettivi né proposte specifiche a riguardo.
L’altro timore, quello del bagno di sangue, è invece difficile da fugare. La zona della città di Gaza è infatti una delle più densamente popolate al mondo ed è difficile immaginare un intervento che eviti vittime civili, tanto più se pensiamo che si tratterebbe di uno scontro in un’area urbana.
Israele ha invitato la popolazione civile della zona nord della Striscia a recarsi nella parte meridionale a sud del fiume Wadi Gaza, lasciando intendere così l’imminenza dell’intervento terrestre. Tuttavia, in un territorio da anni al centro di un blocco e oggi sotto assedio, non per tutti è semplice trasferirsi.
A questo si aggiunge l’interesse di Hamas a mantenere più civili possibile attirando l’accusa da parte di molte realtà internazionali di usare scudi umani. Sono state diffuse le immagini aeree di quello che sembra a tutti gli effetti un blocco messo in piedi dal gruppo lungo il corridoio individuato per l’evacuazione dei civili che di fatto ne impedirebbe la possibilità di fuga.
Inoltre, è da comprendere – e questo lo potranno mostrare solo i fatti – se la richiesta di evacuazione del nord della Striscia stia a significare che Israele svolgerà operazioni terrestri esclusivamente in quell’area o ci sarà una seconda fase focalizzata sul sud.
In ogni caso, la sorte degli oltre due milioni di abitanti della striscia di Gaza rischia di essere non solo un tema fondamentale, ma anche un elemento di potenziale ulteriore destabilizzazione di una regione come il Medio Oriente, in cui la sicurezza ad oggi sembra più fragile che mai, e anche per questo l’Egitto è molto freddo sulla possibilità di aprire il valico di Rafah, che lo collega a Gaza: il timore di un flusso incontrollato di profughi e della difficoltà nel gestirlo è reale.
La questione dei profughi, tuttavia, non è l’unico elemento a destare allarme per gli strascichi del conflitto tra Israele e Hamas. In Cisgiordania si sono registrati scontri limitati e Abu Mazen, presidente della Palestina tutta de iure, ma de facto solo di questo territorio, ha detto che le azioni di Hamas non rappresentano il popolo palestinese, e infatti è un altro il fronte che preoccupa di più.
Come Israele ha evacuato i propri insediamenti a quattro chilometri al confine con Gaza, ha attuato una misura simile al confine col Libano, dove l’apprensione per uno scontro con Hezbollah è concreta e lo scambio di colpi non è mancato. L’11 ottobre i timori che questo fronte diventasse particolarmente caldo sono cresciuti notevolmente dopo che un malfunzionamento del sistema radar aveva segnalato un’incursione aerea di alto profilo, ma fortunatamente si è trattato di un falso allarme.
Ad oggi Israele ed Hezbollah si scambiano colpi con l’obiettivo che nessuno dei due approfitti di questa situazione per sferrare un attacco sull’altro: un equilibrio armato che, come tale, pone il rischio che qualcosa sfugga di mano e si crei un’escalation.
C’è poi la Siria, che, come Hezbollah, è uno stretto alleato dell’Iran, nonché Paese che non riconosce Israele e con cui ha una fragile tregua che periodicamente viene violata con attacchi mirati specie nelle alture del Golan, territorio conteso tra i due Paesi.
Questa circostanza si è ripetuta e, oltre a questo, Israele ha bombardato gli aeroporti internazionali di Damasco e Aleppo: il timore dello Stato ebraico è che Teheran possa fornire armamenti alla Siria e mettere ulteriore pressione al Paese mentre è impegnato nelle operazioni a Gaza.
Alla trepidazione per l’apertura di nuovi fronti si somma anche quella per il deterioramento dei rapporti nella regione. Molti avevano visto l’avvicinarsi di un’intesa tra Israele e Arabia Saudita nell’ambito degli accordi di Abramo come uno degli elementi scatenanti della brutale azione terrorista di Hamas del 7 ottobre: tale avvicinamento non era visto di buon occhio né da ambienti palestinesi, la cui causa avrebbe rischiato così di trovarsi sempre più isolata nello scacchiere mediorientale, né dall’Iran, che avrebbe assistito a un approfondimento dei rapporti tra due suoi storici nemici, ancora di più in un momento di distensione delle relazioni tra Teheran e l’Arabia Saudita dopo la recente mediazione cinese.
Il 14 ottobre Riad ha fatto sapere di aver formalmente sospeso i propri colloqui con Israele: il corso degli eventi mostrerà se si tratta di un temporaneo congelamento o di qualcosa di più duraturo. E dirà anche quali ripercussioni avrà negli equilibri della regione e nella generale normalizzazione in corso dei rapporti tra Israele e i Paesi arabi.
Nel generale contesto globale di deterioramento della sicurezza, che va dal Sahel al Nagorno Karabakh e che ha avuto un forte peggioramento dopo l’aggressione russa all’Ucraina, la diplomazia sembra essere ormai uno strumento marginale, al contrario dell’azione bellica, e giorno dopo giorno il rischio che si creino nuove crisi è sempre più alto. L’attacco di Hamas nel sud di Israele ha scatenato un nuovo teatro di guerra e, in questa situazione, il timore di molti è che questo conflitto possa farne aprire altri ancora, in una regione particolarmente delicata.