Se un ponte di solito è un simbolo di unione e concordia, non si può dire lo stesso per quello che passa sullo stretto di Kerch, che collega la Crimea e il territorio di Krasnodar e rappresenta un elemento di particolare contrasto tra Russia e Ucraina. Questo perché la storia di tale opera, così come la cronaca bellica del conflitto in corso, ci fanno capire che questo ponte non è semplicemente una semplice infrastruttura: non è un caso che entrambe le volte che è stato colpito, la Russia ha risposto con rappresaglie su larga scala.
La storia di questo ponte risale all’annessione della Crimea da parte della Russia avvenuta nel 2014, un gesto mai riconosciuto dalla comunità internazionale che ritiene la penisola de iure parte dell’Ucraina. In quell’occasione, Kiev bloccò i pochi chilometri di confine con la Crimea, isolandola da qualsiasi collegamento terrestre. Dalla Russia, il passaggio più vicino rimaneva lo stretto di Kerch, che la separa dal territorio di Krasnodar, e per questa ragione a Mosca si iniziò a pensare di costruire un ponte che avrebbe rappresentato non solo un’utile infrastruttura, ma anche un simbolo politico della presenza russa in Crimea.
Obiettivo politico
L’opera non si prospettò come semplice: nella storia solo una volta era stato realizzato un ponte sullo stretto di Kerch, durante la Seconda guerra mondiale, ma la struttura, di natura provvisoria, venne distrutta dal ghiaccio e dall’erosione. Nel 2014, dunque, iniziarono i lavori per la costruzione di un ponte di 18 chilometri, che vennero conclusi nel 2018 e cui l’anno successivo si aggiunse la sezione temporanea.
Se per la Russia, dunque, questo ponte ha un importante significato politico, l’opinione dell’Ucraina è ben spiegata dalle parole pronunciate da Kirilo Budanov, capo dei servizi segreti ucraini, che lo scorso ottobre lo aveva definito un «simbolo russo», e come tale da distruggere, aggiungendo che «quando la Crimea tornerà all’Ucraina questo ponte cesserà di esistere», perché «nessuno ne ha davvero bisogno».
Colpire il ponte per Kiev, dunque, ha una doppia valenza: con l’accesso da nord alla Crimea nel raggio dell’artiglieria, colpirlo significa centrare la principale strada di approvvigionamento russa verso la penisola, ma al tempo stesso rappresenta un forte obiettivo politico oltre che militare. E guardando l’altra faccia della medaglia, per Mosca veder colpito il ponte di Kerch non significa assistere a un attacco a un obiettivo come tanti.
Due volte dall’inizio del conflitto il ponte è stato colpito: nel primo caso (8 ottobre 2022) Kiev ha rivendicato l’attacco mesi dopo, nel secondo (17 luglio 2023) solo alcuni funzionari ucraini hanno parlato apertamente di un ruolo del loro Paese, seguendo un modus operandi visto più volte nel conflitto in cui Kiev non ha rivendicato in tempi immediati diversi attacchi compiuti in Crimea. Ma la morale è che in entrambi i casi, dopo le esplosioni sul ponte, da Mosca è arrivata una risposta militare particolarmente dura.
Dopo l’esplosione sul ponte dello scorso ottobre, infatti, la Russia, che aveva appena subito una sconfitta nella controffensiva di Kharkhiv e aveva da poco messo il generale Sergei Surovikin a capo delle operazioni, decise di rispondere con una serie di attacchi missilistici su larga scala contro numerose città ucraine focalizzandosi su centrali termiche ed elettriche e mettendo in difficoltà le infrastrutture energetiche. Dopo l’esplosione al ponte di luglio, invece, Mosca ha annunciato la sua uscita dall’accordo sul grano del Mar Nero e colpito per giorni il porto di Odessa, uno dei tre porti ucraini che fanno parte dell’accordo.