Secondo Giorgia Meloni e i suoi alleati tutta questa fretta di contrastare il surriscaldamento globale è ingiustificata. Il cambiamento climatico c’è, sì, ormai è sotto gli occhi di tutti e non lo si può più negare. Ma – sostengono i patrioti che stanno al governo – non è vero che la responsabilità è imputabile all’essere umano. Quindi: va bene la transizione ecologica, ma senza correre, come chiede di fare la Commissione europea.
Per Meloni il Green New Deal dell’Ue è un prodotto della «ideologia ecologista»: «Basta con il fondamentalismo. Vogliamo difendere la natura con al suo interno l’uomo. La sostenibilità ecologica deve andare di pari passo con quella economica», ha scandito la presidente del Consiglio due settimane fa, intervenendo in videoconferenza a un evento elettorale del partito spagnolo Vox.
Dopo il tornado abbattutosi su Milano, le grandinate in Romagna e Marche e gli incendi divampati in Sicilia e Sardegna, la premier ha annunciato un grande piano di messa in sicurezza del territorio perché «le emergenze saranno sempre più presenti», ma non ha speso una parola per spiegare quali politiche intende adottare per contrastare la crisi climatica che sta all’origine di tali eventi estremi.
Circa un anno fa, a Marbella, sempre davanti agli elettori di Vox – nel famoso comizio in cui sfoggiò la versione iberica di «Io sono Giorgia, sono una madre» – Meloni disse che il Green New Deal «ci porterà a perdere migliaia di aziende e milioni di posti di lavoro in Italia e in Europa». Peccato che proprio in quegli stessi giorni era l’emergenza siccità a mettere in ginocchio migliaia di aziende agricole (che secondo Coldiretti nel 2022 hanno subito danni per 6 miliardi di euro a causa della scarsità d’acqua).
Dal via libera a nuove trivellazioni nel Mar Adriatico fino alla linea tenuta sui provvedimenti europei per automotive e case green, il Governo di centrodestra ha dimostrato finora di considerare il contrasto al surriscaldamento globale un tema secondario nella propria agenda, rispetto a molti altri.
L’esecutivo insiste per allungare i tempi della transizione ecologica, come se sulla crisi climatica ci fosse spazio per intavolare una trattativa. Come se non ci piovessero addosso da anni gli allarmi degli scienziati – su tutti, quelli del Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (Ipcc) dell’Onu – secondo cui se non agiremo subito l’umanità andrà incontro a «indicibili sofferenze».
Del resto, era scritto a chiare lettere nel programma di governo sottoscritto congiuntamente dai partiti di centrodestra alla vigilia delle scorse politiche, dove si parlava di transizione energetica «sostenibile», ossia solo a determinate condizioni, puntando – sì – sull’«aumento della produzione di energia rinnovabile» ma anche sul «pieno utilizzo delle risorse nazionali, anche attraverso la riattivazione e nuova realizzazione di pozzi di gas naturale».
Lunga vita agli idrocarburi
Fin dal giorno del suo insediamento a palazzo Chigi, Meloni sbandiera a ogni occasione la volontà di dar corso in Africa a un fantomatico «piano Mattei», di cui al momento però – a parte il nome – si sa ben poco, se non che sarà presentato a ottobre.
Tralasciando le fin troppo palesi differenze fra la visione geopolitica propria di Enrico Mattei e quella dell’ultra-atlantica Giorgia, nelle intenzioni della premier l’Italia dovrebbe diventare un hub europeo per il gas proveniente dal continente africano.
Nei suoi viaggi ufficiali in Libia e Algeria, Meloni si è fatta accompagnare dall’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, che già lo scorso anno – dopo lo scoppio della guerra in Ucraina – aveva più volte affiancato l’allora premier Draghi e l’allora ministro degli Esteri Di Maio nelle loro missioni all’estero per stringere nuovi accordi di fornitura di metano.
Il problema è che il gas naturale è un combustibile fossile: il Green New Deal europeo lo considera una fonte accettabile solo in via transitoria, nel passaggio dal carbone alle rinnovabili, ma metterlo al centro della propria politica energetica ed estera – investendo in accordi di lungo periodo e soprattutto in infrastrutture molto costose – significa vincolarsi per decenni ancora agli idrocarburi.
A ciò si aggiunga che lo scorso novembre uno dei primi provvedimenti del nuovo governo è stato il via libera alle autorizzazioni per effettuare nuove trivellazioni nel Mar Adriatico, proprio alla ricerca di metano.
«Vogliamo affrontare la questione energetica non solo sul piano emergenziale, ma interrogarci su come si possa essere il più possibili autonomi», ha spiegato Meloni.
Peccato che i giacimenti nei fondali marini italiani contengano quantità di gas ridicole rispetto ai consumi: lo stesso Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica (anche il nome del dicastero è cambiato: non si chiama più “della Transizione ecologica”), ha dichiarato che dalle nuove trivellazioni si stima possano emergere «15 miliardi di metri cubi sfruttabili nell’arco di dieci anni», quando invece la domanda di metano in Italia supera i 70 miliardi di metri cubi all’anno.
Ma la linea pro-fossili del Governo è emersa evidente anche quando si è trattato di nominare i top manager delle grandi partecipate di Stato operanti nel settore energia: all’Eni è stato confermato per il quarto mandato l’amministratore delegato uscente Descalzi, che negli ultimi nove anni ha guidato il cane a sei zampe puntando forte sulla vecchia accoppiata gas e petrolio, mentre all’Enel Francesco Starace è stato accompagnato alla porta dopo aver fatto della società uno dei principali operatori mondiali nel campo delle fonti rinnovabili. E alla presidenza di Enel è arrivato il manager berlusconiano Paolo Scaroni, che tra il 2005 e il 2014 fu tra i registi degli accordi sul gas fra Eni e la russa Gazprom.
Calcoli sbagliati
È però nel settore automotive che l’ostilità del centrodestra italiano rispetto alla rivoluzione verde ha toccato il suo apice. Matteo Salvini, vicepremier e ministro dei Trasporti, in più occasioni ha definito «folle» il regolamento Ue che vieta dal 2035 la vendita di autoveicoli alimentati con motori termici. Sull’obiettivo finale della decarbonizzazione «siamo tutti d’accordo», assicura il leader della Lega, «ma correre eccessivamente rischia di produrre l’effetto contrario»: secondo Salvini, passare dal binomio benzina-diesel alle batterie elettriche «significa mettersi mani e piedi in braccio alla Cina» e «perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro in Italia».
Anche Meloni la pensa così: «Decidere di legarsi a tecnologie che sono di fatto detenute come avanguardia da nazioni esterne all’Unione – ritiene la premier – è una scelta che non favorisce la competitività del nostro sistema». E così il Governo italiano si è astenuto, lo scorso 28 marzo, nel voto al Consiglio europeo sullo stop alle auto a combustione.
La misura – che riguarda solo la vendita di veicoli nuovi, mentre non pone limiti al mercato dell’usato – era vista con diffidenza già dal precedente esecutivo presieduto da Mario Draghi. Memorabile, per non dire paradossale, la dichiarazione dell’allora ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, secondo cui proprio «la transizione ecologica potrebbe essere un bagno di sangue»: non esattamente un messaggio incoraggiante nell’ottica della lotta al cambiamento climatico.
Cingolani sosteneva che nella nuova era dell’automotive ci dovrebbe essere ancora spazio per i motori termici sostituendo benzina e diesel con biocarburanti e carburanti sintetici. Che poi è la stessa linea sostenuta oggi dal Governo Meloni, il quale non a caso ha nominato l’ex ministro draghiano prima consulente del suo successore Pichetto Fratin e ora neo-amministratore delegato di Leonardo, azienda che opera nel ben poco ecologico settore degli armamenti (forse per la serie “mettete un fiore nei vostri cannoni”).
Ma torniamo all’oggi. L’Italia dei «patrioti» scettici sull’auto elettrica, nei negoziati a Bruxelles, ha fatto da sponda alla Germania, che chiedeva una deroga nel regolamento per i motori termici alimentati con carburanti sintetici (i cosiddetti e-fuels): Roma contava, in questo modo, di ottenere a sua volta una deroga per i biocarburanti, soluzione su cui Eni ha investito molto negli ultimi anni.
Alla fine, però, l’hanno spuntata solo i tedeschi: l’Ue ha tenuto la porta aperta agli e-fuels, ma non ai combustibili ricavati da biomasse, e così il ministro Pichetto Fratin è rimasto con un pugno di mosche in mano (sebbene speri che il discorso possa riaprirsi l’anno prossimo, dopo le elezioni europee, nel caso di una nuova maggioranza a Bruxelles sorretta da popolari e conservatori).
I biocarburanti sponsorizzati dal nostro governo si producono a partire da colture come mais, colza, olio di palma, oppure dagli oli esausti della ristorazione: sono rinnovabili e inquinano certamente meno della benzina e del diesel, ma consumano suolo e acqua e non possono dirsi “neutri” dal punto di vista delle emissioni, perché l’anidride carbonica sprigionata dai processi produttivi e dal motore non è bilanciata da quella assorbita dalle piante in fase di crescita.
Non solo: c’è anche un problema di quantità. L’88% del biodiesel consumato attualmente in Italia è prodotto con biomasse importate dall’estero (più della metà da Paesi asiatici come Cina, Indonesia e Malesia). E, soprattutto, i 6 milioni di tonnellate annue di biocarburanti che Eni punta a produrre entro il 2030 coprirebbero appena un sesto della domanda proveniente da automobilisti e autotrasportatori. Lo stesso amministratore delegato di Eni, Descalzi, ha riconosciuto che i principali mercati di sbocco sono l’aviazione e il trasporto marittimo.
Peraltro, anche sugli e-fuels va detto che il fronte di Berlino non è affatto compatto: i carburanti sintetici – sponsorizzati da Porsche e Bosch, ma anche dall’italianissima Ferrari – sono un pallino del ministro dei Trasporti, il liberale Volker Wissing, ma sono anche fortemente osteggiati, nella maggioranza di governo, dai Verdi, mentre secondo Markus Duesmann, patron dell’Audi (Gruppo Volkswagen), «non sono destinati a giocare, nel medio termine, un ruolo rilevante nel settore delle auto più vendute». Anche perché sono costosissimi: oggi un litro costa circa 10 euro. Stiamo parlando insomma di una soluzione al momento non praticabile su larga scala.
Dove va l’industria
E mentre in Italia Meloni, Salvini e Pichetto Fratin diffidano della svolta elettrica e scommettono sui biocarburanti, le case automobilistiche di tutto il mondo hanno previsto investimenti per oltre 1,2 trilioni di dollari entro il 2030 sulle auto a batterie (lo ha calcolato l’agenzia di stampa Reuters).
Tutti i costruttori che operano sul mercato europeo si sono dati come obiettivo quello di anticipare di cinque anni il diktat di Bruxelles e di vendere già nel 2030 solo veicoli elettrici. Il dominatore mondiale del settore è la Cina, dove l’elettrificazione è stata sostenuta per anni da massicci investimenti pubblici che ora non sono più necessari perché il comparto è in grado di camminare sulle proprie gambe. E le auto cinesi, che già hanno prezzi accessibili a molti, sono pronte a invadere il mercato europeo.
Ma anche gli Stati Uniti non stanno a guardare: con l’Inflaction Reduction Act, il presidente Joe Biden ha stanziato 400 miliardi di dollari per la riconversione green dell’industria nazionale e nel piano sono previsti anche maxi-incentivi per l’acquisto di auto elettriche e misure stringenti per lo sviluppo di una filiera americana delle batterie.
Senza andare troppo lontano, già nel 2022 in Norvegia l’auto più venduta dell’anno è stata un’elettrica, la Tesla Model Y: Tesla che peraltro fra due anni – secondo Bloomberg – sarà superata dalla tedesca Volkswagen come leader delle vendite globali di veicoli elettrici.
Il mercato, insomma, procede ormai spedito in quella direzione. Ma il Governo preferisce opporre resistenza al cambiamento, anziché pianificare un sistema di riconversioni produttive, investimenti pubblici, attrazione di investimenti privati e ammortizzatori sociali per i lavoratori con l’obiettivo di sviluppare un’industria italiana dell’automotive green, come fra l’altro chiedono a gran voce anche aziende e sindacati.
Ci sono vari studi che stimano un potenziale aumento dell’occupazione: uno di questi, realizzato all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha calcolato che, considerando le nuove sotto-filiere della mobilità elettrica, i posti di lavoro nell’automotive entro il 2030 in Italia possono aumentare del 6% entro il 2030. È proprio perché il mercato sta andando in quella direzione che occorre attrezzarci oggi per evitare di ritrovarci – domani – «mani e piedi in braccio alla Cina», come paventato da Salvini.
Il salasso che non c’è
Ancora più acceso è lo scontro tra Governo italiano e Ue sul terreno delle case green. Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia hanno votato contro la maggioranza del Parlamento europeo che lo scorso 14 marzo ha adottato il mandato negoziale sulla proposta di legge per l’efficientamento energetico degli immobili.
La misura prevede che tutti gli edifici residenziali dovranno raggiungere, come minimo, la classe di prestazione energetica E entro il 2030 e la D entro il 2033, mentre per gli edifici non residenziali e per quelli pubblici il raggiungimento delle stesse classi dovrà avvenire rispettivamente entro il 2027 (E) e il 2030 (D).
«Manca una seria presa in considerazione del contesto italiano, diverso da quello di altri Paesi europei per questioni storiche, di conformazione geografica, oltre che di una radicata visione della casa come “bene rifugio” delle famiglie italiane», ha polemizzato il ministro Pichetto Fratin, sottolineando che «gli obiettivi temporali, specie per gli edifici residenziali esistenti, sono ad oggi non raggiungibili per il nostro Paese».
L’associazione nazionale dei costruttori edili (Ance) stima che in Italia, su 12 milioni di edifici residenziali, oltre 9 milioni non rispettino ad oggi le performance energetiche richieste. Secondo il Governo Meloni, adeguare agli standard europei un così vasto patrimonio immobiliare significherebbe costringere milioni di italiani che sono piccoli proprietari di casa a sopportare pesanti costi di ristrutturazione.
Questa critica, tuttavia, non tiene conto di tre elementi. Primo: il provvedimento approvato dall’Europarlamento (peraltro ancora non definitivo) prevede diverse deroghe; ad esempio, saranno esentate dall’obbligo di riqualificazione le case vacanza o le seconde case utilizzate per meno di quattro mesi all’anno, ma anche gli immobili di pregio storico o architettonico.
Secondo: la stessa proposta di legge stabilisce che «i piani nazionali di ristrutturazione prevedano regimi di sostegno per facilitare l’accesso a sovvenzioni e finanziamenti» e che «gli Stati membri dovranno allestire punti di informazione e programmi di ristrutturazione neutri dal punto di vista dei costi»; il che significa che gli interventi saranno sostenuti almeno in parte con un cospicuo contributo pubblico.
Terzo: una volta efficientati, gli edifici vedranno moltiplicato il proprio valore di mercato e le famiglie pagheranno bollette energetiche assai più basse (in alcuni casi inferiori anche di dieci volte). Questi tre elementi, sommati tra loro, alleggeriscono l’onere a carico dei piccoli proprietari immobiliari.
Al parlamento di Strasburgo il provvedimento è passato con i voti favorevoli dei socialisti e dei verdi, ma anche dei liberali e di una parte del Partito popolare (che sul tema si è spaccato). I «patrioti» italiani, invece, hanno votato contro.
E c’è poco da stupirsi: Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri, ha sostenuto durante l’ultima campagna elettorale che «per la transizione ecologica serve più tempo»; il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ritiene che «se spingiamo sulla sostenibilità ambientale avremo gravi conseguenze sulla sostenibilità sociale»; la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, ha affermato in passato che le manifestazioni dei giovani per il Clima sono solo «una buffonata per saltare la scuola in massa».
È un governo che non si rende conto, evidentemente, dei pericoli a cui va incontro l’umanità e delle conseguenze che il surriscaldamento globale avrà, ad esempio, in termini di migrazioni di massa (tanto per citare un tema molto sentito dall’esecutivo).
Per Meloni e i suoi alleati è impossibile anche solo pensare di trattare un cessate il fuoco in Ucraina con Putin, ma si può pretendere di negoziare i tempi della crisi climatica con Madre Natura. E la chiamano pure realpolitik.