«Arrivano da Washington le notizie degli aerei che intendevano schiantarsi sulla Casa Bianca e, mentre mi sto chiedendo se sono sveglio o se si tratta di un incubo, squilla il telefono. Rispondo a fatica e senza nascondere un certo fastidio. È Carlo Freccero, il direttore di Rai Due, il mio direttore di rete. “Vespa va in onda stasera in prima serata con uno speciale. Non puoi lasciargli il monopolio di questa situazione. Devi andare in onda anche tu”. “E come cazzo faccio? Lui ha uno studio disponibile ventiquattro ore su ventiquattro, gli è facile accendere il motore. Il nostro è a Saxa Rubra e sarà pronto solo a fine mese. Non abbiamo nemmeno cominciato a mettere mano alla scenografia!”. “Lo so che non hai ancora uno studio e una scenografia. Vai in onda dalla strada, da una piazza, da un posto qualsiasi, se non troviamo di meglio. Devi trasmettere. Assolutamente. Ti scegli un posto all’aperto e trasmetti, nessuno meglio di te. Se piove apri l’ombrello, ma non lasciare che Bruno Vespa vada in onda da solo. Ti scongiuro. Non lo fare!”. Discorsi di una televisione plurale che non c’è più».
Così scrive Michele Santoro in uno dei passaggi più significativi del suo recente pamphlet, dedicato a giornalismo, guerra e democrazia e intitolato “Non nel mio nome” (Marsilio Editore). Basta questa descrizione per rendersi conto che c’è stato un prima e un dopo.
Quel fatidico 2001
L’ascesa mediatica di Berlusconi inizia negli anni Ottanta, con il formarsi del suo impero televisivo basato su programmi innovativi – telenovele come Beautiful, serie come Uccelli di rovo, l’epopea dell’America reaganiana incarnata da Dallas, il Drive In, Telemike, il Maurizio Costanzo Show e molti altri ancora – e supportato da varie leggi ad hoc, dai decreti Craxi alla Mammì, che gli consentono di creare un’alternativa mai esistita prima al monopolio della Rai.
È nel 2001, tuttavia, che vengono poste le basi per il cambiamento epocale che ha segnato il ventennio successivo. Quell’anno, infatti, si vota per le politiche e il centrosinistra, reduce da un’esperienza di governo che definire travagliata sarebbe un eufemismo, si trova a fare i conti con uno svantaggio consistente rispetto al Cavaliere, in corsa verso Palazzo Chigi.
La debolezza della proposta politica di Francesco Rutelli, il candidato dello schieramento progressista, preferito nell’autunno del 2000 a Giuliano Amato, è lampante. La mancata legge sul conflitto d’interessi, cui il centrosinistra ha preferito la disastrosa riforma del Titolo V della Costituzione, è un’altra colpa storica imperdonabile. E così, in campagna elettorale, un Berlusconi lanciatissimo può schierare le sue televisioni all’unisono.
In Rai, invece, qualcuno decide di porsi qualche domanda. Daniele Luttazzi, ad esempio, invita Marco Travaglio a Satyricon a presentare un saggio, scritto insieme a Elio Veltri e intitolato “L’odore dei soldi” (Editori Riuniti), in cui si analizzano la nascita e il progressivo incremento delle fortune berlusconiane.
Michele Santoro, che all’epoca conduceva Il raggio verde, martella più o meno sugli stessi argomenti, mettendo a nudo le contraddizioni del futuro padrone del Paese. Enzo Biagi, infine, al Fatto intervista Roberto Benigni ma soprattutto, in precedenza, Indro Montanelli, che il 27 marzo dichiara che voterà per Rutelli ma di augurarsi, al contempo, la vittoria di Berlusconi, affinché gli italiani possano vaccinarsi da lui.
Nella stessa puntata, Biagi afferma: «In caso di vittoria del leader del Polo, mi è venuta l’idea di una possibile dittatura morbida che non ha le quadrate legioni ma i quadrati bilanci». Secondo Loris Mazzetti, regista e collaboratore di Biagi, fu quella la causa scatenante dell’«editto bulgaro».
Nell’estate del 2001 accade di tutto. Prima dell’attentato contro le Torri Gemelle, il G8 di Genova si trasforma in un mattatoio, con un insieme di misfatti che mina per sempre la nostra democrazia. Negli stessi giorni muore Montanelli. Biagi vorrebbe realizzare due speciali: uno sui fatti di Genova e l’altro sull’amico Indro. In entrambi i casi, i vertici aziendali gli consigliano di riposarsi.
Le ragioni di quel suggerimento interessato ci sarebbero state chiare nove mesi dopo, il 18 aprile 2002, quando il Cavaliere pronunciò a Sofia il già menzionato editto bulgaro: «L’uso che Biagi, Santoro e Luttazzi hanno fatto della televisione pubblica pagata coi soldi di tutti è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga».
Luttazzi non è mai tornato in Rai. Santoro vi è tornato solo grazie a una sentenza del Tribunale del lavoro, e comunque nel 2006, dopo la fragile vittoria dell’Unione. Biagi il 22 aprile 2007, sette mesi prima di morire.
Censura bipartisan
Il 16 novembre 2003 esordisce su RaiTre una trasmissione satirica di ottimo livello. Si chiama RaiOt e Sabina Guzzanti dà il meglio di sé. Anche per questo viene chiusa dopo una sola puntata. Presidente di garanzia della Rai, indicata dall’opposizione, era all’epoca Lucia Annunziata.
Presidente della Commissione di Vigilanza Rai, invece, era il senatore diessino Claudio Petruccioli, il quale, secondo la Guzzanti, si sarebbe potuto opporre alla chiusura del programma ma non lo fece, adducendo la motivazione – sostiene ancora Sabina – che «quella non era satira». Anche un giornale vicino ai Ds, il Riformista diretto allora da Antonio Polito, fu estremamente critico nei confronti della trasmissione.
Qualcuno ha parlato di una censura bipartisan. Forse è eccessivo metterla in questi termini, ma le colpe della sinistra sono inoppugnabili e, purtroppo, pesano come macigni sulla sua credibilità attuale. Perché, in fondo, una certa irriverenza, una certa indipendenza e un certo spirito critico producevano, e producono tuttora, un fastidio questo sì bipartisan, ed è il lascito peggiore del berlusconismo, l’eredità che ha mutato per sempre il volto del Paese.
C’era una volta…
Se vi capita, per caso, sotto mano un palinsesto di allora, vedrete che andavano in onda una miriade di programmi che ora non esistono più. E non ci riferiamo ai titoli ma alla sostanza. Allo stesso modo, ormai per trovare una trasmissione satirica bisogna andare sul Nove, dove da qualche anno va in onda Fratelli di Crozza, quando nei primi mesi del 2001 su RaiDue facevano furore i fratelli Guzzanti con L’ottavo nano. Indimenticabile, a tal proposito, una delle imitazioni di Rutelli, quando, preso in giro da Corrado Guzzanti, sostiene che «er Paese non è né de destra né de sinistra. Er Paese è de Berlusconi!».
Un ragazzo o una ragazza di vent’anni tutto questo non l’ha mai visto. Se ha fortuna, glielo hanno raccontato i genitori o i fratelli maggiori, ma c’è una bella differenza fra essere cresciuti con determinati telegiornali, talk show e programmi satirici e una certa passione politica e civile ed essere cresciuti senza.
La vera rivoluzione del Signor TV è stata, dunque, questa: ci ha plasmato a sua immagine e somiglianza, ci ha reso come voleva lui e ci ha definitivamente spoliticizzato, tanto che ormai «novecentesco» e «ideologico» sono diventati aggettivi impronunciabili e va di moda dirsi «né di destra né di sinistra». Oggi l’Italia, per riprendere l’ironia amara del Rutelli di Guzzanti, appartiene al berlusconismo più che a Berlusconi. E a consegnargliela sono stati proprio coloro che si sarebbero dovuti opporre al suo disegno di conquista.