L’exploit delle politiche è lontano e oggi il M5S di Conte è costretto a subire una crisi strutturale che ha rivelato per l’ennesima volta il dato dell’inconsistenza dei pentastellati sul piano locale. La Caporetto delle ultime amministrative è allarmante e c’è chi ancora si nasconde dietro all’assunto che il Movimento sui territori è debole, come fosse una giustificazione.
Alcuni numeri: ad Ancona i Cinque Stelle passano dal 17,1% del 2017 al 3,5 di quest’anno; a Brescia dal 18,2% al 1,4%; a Latina dal 28% al 3%; e via così, con vertiginosi crolli. A febbraio, alle regionali del Lazio, il M5S ha raccolto l’8,5%, quando cinque anni fa era al 22%.
Nel 2016 il M5S amministrava città come Torino, Roma, Livorno, oltre a 60/70 Comuni in tutta Italia. Era egemone al Sud in regioni come Puglia, Campania e Sicilia.
Possiamo quindi sfatare la comoda fake dello «storicamente non radicato», con la quale i dirigenti minimizzano i loro fallimenti. Un movimento che fatica a stare sulle posizioni visionarie, quanto populiste, delle proprie radici, in quel programma che, prima di Beppe Grillo, fu di Gianroberto Casaleggio e che nonostante abbia promosso leggi tra le più innovative e anti-cicliche della storia del Paese, nonostante stia portando avanti posizioni popolari come il pacifismo, oggi fatica a reclutare una classe dirigente e attivi militanti.
Le liti tra Grillo e Conte, l’adesione lacerante al Governo Draghi, la perdita di Di Battista, Marra, Lezzi, Bugani, il tradimento di Di Maio, ma soprattutto il contenzioso con la piattaforma Rousseau hanno distrutto lo scheletro del Movimento, rompendo quella colonna vertebrale che dai meetup aveva sbancato nelle piazze, fino alle istituzioni.
È insito nella liquidità della politica di oggi che leader carismatici non vantino capacità organizzative, pertanto deleghino a terzi, spesso incapaci quanto interessati. Da questo dipende il destino di un’organizzazione.
Al fianco di Conte rimangono pochi consiglieri: Taverna, Casalino, Crimi, oltre i quali regna il vuoto. Un esercito di anonimi, rampanti e spesso di discutibile cultura politica, avventori di posti in lista che, senza troppi riguardi, popolano il M5S nella speranza di un risultato di rendita.
Il sospetto è quello di un gruppo dirigente che si guarda bene dal dare spessore ai territori con persone conosciute e capaci.
Durante le politiche, ad esempio, Conte avrebbe potuto investire su nomi e personaggi dell’area cosiddetta progressista in grado di recepire il voto dei delusi dal Pd di Letta, che – come abbiamo visto – erano milioni.
Ma l’Opa sul progressismo è rimasta solo nelle parole e nelle aule di Montecitorio. Sui territori, invece, si tende a escludere, puntando sulla sterilità di figure che non diano fastidio alle poche contee che sul Movimento contano ancora di adagiare.