«Cosa fai nella vita per permetterti questa macchina?». Sentiamo questa domanda, talvolta retorica, in tanti reels Instagram o video TikTok che, con tono leggero, esibiscono il benessere di utenti sulla cui professione, però, rispondono molto spesso in modo ambiguo. Dai commenti a questo tipo di post, non di rado si constata la fila di proseliti che si premurano di notiziare l’autore di avergli scritto un messaggio privato al fine di ricevere delle dritte sulle opportunità di business. Ma fra questi “influencer”, capaci di promuovere più i propri profitti che le proprie attività, potrebbero nascondersi esponenti dei clan. Sta cambiando il mondo delle mafie e i social network stanno accogliendo, loro malgrado, una nuova narrazione.
Perfettamente integrati
«Le mafie mutano con il mutare della società, utilizzando tutti gli strumenti che la contemporaneità offre. Come i cittadini onesti e perbene comunicano con i social, anche loro comunicano con i social», risponde a TPI Nicola Gratteri, fra i magistrati più esposti nella lotta contro la ‘ndrangheta. Lo abbiamo incontrato in un auditorium gremito dei liceali dell’istituto “Piero Bottoni”, nel quartiere Ghisolfa di Milano, area tristemente nota per le vicende criminali che hanno caratterizzato gli anni Novanta con l’egemonia della cosca dei Di Giovine. «Le nuove generazioni di mafiosi, ndranghetisti e camorristi in primis, stanno utilizzando in modo massiccio mezzi come Facebook, Instagram e TikTok per apparire come un modello conveniente e vincente. In questi video mettono in esposizione, come in una vetrina, il loro potere e il loro successo mostrando soldi in mano, indossando orologi d’oro e abiti griffati, guidando auto di lusso e attraendo così le nuove generazioni magari disperate. Molti giovani, disoccupati o non ben strutturati sul piano culturale, trovando allettante tutto questo, potrebbero cadere in una trappola», così il procuratore della Repubblica di Catanzaro e autore insieme ad Antonio Nicaso, docente di Storia sociale della criminalità organizzata alla Queen’s University, del recente “Fuori dai confini” (2022, Mondadori) sui ghiotti affari che la ‘ndrangheta ha messo a segno durante la lunga stagione del Covid-19, ma non solo. «In questi mesi, il professor Nicaso, con altri professori dell’Università di Salerno e la Fondazione Magna Grecia di Roma, stanno analizzando migliaia di messaggi per decriptare quelle emoji WhatsApp che servono a mandare segnali ad altri che conoscono già quel linguaggio».
L’arma della criptofonia
«Hanno assunto ingegneri informatici perché programmassero applicazioni di messaggistica istantanea esclusivi», risponde a TPI lo storico delle organizzazioni criminali Antonio Nicaso. «Un fenomeno, quello della criptofonia, per di più legale, già largamente utilizzato dalle grandi aziende per proteggersi dallo spionaggio industriale e che adesso trova largo uso nelle consorterie mafiose. Le mafie d’Oltreoceano stanno dimostrando di utilizzare efficientemente anche TikTok. Il cartello di Jalisco o il cartello di Sinaloa, per esempio, utilizzano molto bene questo social network per raccontarsi. In Italia si sta andando verso questa direzione. Non c’è più qualcun altro che racconta le mafie, ma sono loro stesse a raccontarsi. Così passano messaggi preoccupanti, attraverso ad esempio canzoni neomelodiche», spiega Nicaso proponendo una narrazione che si sta espandendo sempre più, alimentando nuove storie e ingenerando un processo di vera e propria “mafiatizzazione” del gusto e delle preferenze del pubblico, com’è raccontato nel sopracitato volume. «I “pizzini” del nuovo millennio sono i meme, gli hashtag, gli emoji: una siringa è un mezzo per comunicare un patto di sangue; una clessidra comunicherebbe il tempo che scorre per chi rischia di finire in carcere; l’emoji del leone diventa simbolo di potere. Ma sono tante altre le emoticon che suppliscono al simbolismo tradizionale», rivela il docente a cui fa seguito il magistrato.
«Noi italiani non stiamo riuscendo tuttavia a bucare quei sistemi di messaggistica utilizzati dalle mafie per mezzo di telefoni che arrivano a costare fino a 3.500 euro, mentre ad esempio ci sono riusciti i francesi, gli olandesi e i tedeschi. In Italia, negli ultimi anni, non s’è investito in tecnologia e la nostra polizia giudiziaria, sebbene resti una delle migliori del mondo, è come se fosse ancora a penna e calamaio. Dobbiamo riprenderci dal taglio delle assunzioni alle forze dell’ordine del 2010, tuttora mancano migliaia e migliaia fra agenti di polizia penitenziaria, finanzieri e poliziotti. Per lo meno, la nostra è una legislazione antimafia evoluta ma altrove di contrasto al riciclaggio non vogliono sentirne parlare. Siamo rimasti alla direttiva europea che invita gli Stati a non consentire transazioni economiche superiori a 10 mila euro: mi sembra poca cosa per un Continente che vuole difendersi dalle organizzazioni criminali, anche perché molti Paesi europei continuano a inserire nel prodotto interno lordo il ricavato delle attività illecite. Dal punto di vista etico, non mi pare una grande risposta da dare ai propri cittadini. Dobbiamo dimostrare che l’Europa non sia soltanto moneta unica e viaggi senza Passaporto. Di sicurezza e contrasto alle mafie si deve discutere. Quando, ad esempio, si comincia a discutere di riciclaggio, alcuni Paesi tirano fuori la parola magica “privacy”. Quando si vuole fare qualcosa per rendere la vita difficile ai malavitosi e proponiamo riforme normative, questi ci rispondono che c’è l’esigenza della privacy», chiosa amaro Nicola Gratteri che indaga sulle rotte internazionali del traffico di droga ed enumera perciò le fatiche anche nel contrasto alle nuove frontiere del narcotraffico.
«Mentre la mafia si muove nel mondo come un unico Stato, noi dobbiamo ancora organizzarci. L’Olanda è il primo Paese d’Europa per la produzione di droghe sintetiche, nel mondo invece lo è la Bolivia, già produttrice di cocaina allo stato naturale e, adesso, pure di cocaina rosa, cioè sintetica, più difficile da individuare poiché inodore: crea gli stessi effetti stupefacenti e costa meno. Le mafie hanno dimostrato, con le “designer drugs”, di sapere modificare una struttura molecolare e rendere commercializzabile un precursore chimico necessario a produrre sostanze sintetiche in grado di viaggiare, con successo, per lunghe distanze. Nel frattempo, in Italia, si discute ancora di intercettazioni, se costano troppo o no, se i mafiosi parlino a telefono o meno, evitando però di dire quale sarà il destino delle intercettazioni che riguardano corruzione, concussione e peculato», è lo sfogo del magistrato.
Patologia del potere
«C’è un sottile cordone ombelicale che ha legato la classe dirigente alla picciotteria. Le mafie sono una patologia del potere, un prodotto di certa classe dirigente che ha dato un valore economico alla violenza che è stata messa a servizio di alcune frange che poi hanno avuto la possibilità di relazionarsi con il resto della società. Si avverte sempre più un abbattimento della morale e dell’etica ed è sempre più facile corrompere e penetrare nella Pubblica Amministrazione, in concreto avvicinare funzionari proni e pronti a vendersi, prostituendosi, anche per 5 o 10 mila euro apponendo una firma dove non dovrebbe essere messa», tuona Nicola Gratteri dinanzi a una fitta platea di cittadini nell’ambito dell’appuntamento instaurato dall’associazione “Su la Testa” di Luigi Piccirillo lunedì 15 maggio, data vicina a quella della strage di Capaci, giunta al trentunesimo anniversario, in cui hanno perso la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, per cui il giudice Gratteri offre una riflessione: «L’amarezza è che si incomincia a notare una certa stanchezza a parlare di lotta alla mafia. Forse qualcuno di noi ha sbagliato, forse qualcosa nell’antimafia non ha funzionato. Bisogna fare subito pulizia, altrimenti ci rimettiamo tutti sul piano della credibilità. L’antimafia è una cosa seria e non si fa con la partita iva ma la si fa in nome di tante persone morte e di un ideale. Dovremmo cercare di essere da modello nei confronti di coloro che non hanno il coraggio di prendere posizione».
Intorno al procuratore che ha indagato sulla strage di Duisburg, c’è la sua scorta. Il magistrato è destinatario di minacce di morte, le ultime quelle di Francesco Barbieri, ritenuto temporaneamente a capo della locale di Zungri dopo l’arresto del boss Peppone Accorinti, del quale è nipote, intercettato nell’ambito dell’operazione Maestrale-Carthago. «Per superare la paura bisogna essere convinti sull’utilità di quel che si sta facendo. Quando ragiono con la morte, capisco che non mi posso fermare. Se mi fermassi o rallentassi, sarei un vigliacco. E per me non avrebbe senso, all’età di 65 anni, vivere da vigliacco».