Burocrazia, ritardi, rimpallo delle responsabilità, sovrapposizione delle competenze, mancanza di una visione complessiva degli interventi a cui dare priorità, ma soprattutto scarsa capacità di investire nella tutela del territorio. Il disastro avvenuto in Emilia Romagna si aggiunge ai quasi 500 eventi alluvionali che hanno colpito l’Italia negli ultimi vent’anni e mentre la politica, i media e l’opinione pubblica si accapigliano per trovare i responsabili dell’ultima calamità – con accuse incrociate su chi ha puntato di più o di meno sulle politiche ambientali – le cause dell’incapacità di prevenire queste catastrofi sono ancora tutte sul tavolo.
Basti pensare che, secondo la Corte dei Conti e l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), per salvare l’Italia da frane e alluvioni servirebbero 26,579 miliardi di euro ma i governi susseguitisi a Palazzo Chigi dal 1999 ne hanno investiti soltanto 6,59. Nello stesso periodo però, stando all’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (Irpi) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), in Italia si sono registrati circa 270 morti per frane e inondazioni.
Come una guerra
Il conto delle vittime degli ultimi cinquant’anni è paragonabile a un conflitto armato. Secondo l’ultimo rapporto Irpi pubblicato a gennaio, a seguito di eventi di frana e di inondazione avvenuti nel nostro Paese tra il 1972 e il 2021 almeno 1.610 persone sono morte, 42 risultano disperse, 1.875 sono rimaste ferite e oltre 305mila sono state evacuate.
Nessuno sembra completamente al sicuro perché questi fenomeni hanno colpito tutte le province di ognuna delle venti regioni italiane e in particolare 3.921 località di 2.187 comuni. A tutto questo vanno aggiunti altri 21 eventi registrati nel 2022, che hanno provocato 24 morti, un disperso, 26 feriti e 1.384 evacuati in 58 comuni di 33 province. In totale, considerando solo il nuovo millennio, in Italia abbiamo registrato quasi 270 morti mentre, stando all’Ispra, 1,28 milioni di persone vivono ancora in aree a rischio frane e oltre 6 milioni in zone a rischio alluvioni.
Anche i danni però costano quanto una guerra. Secondo i dati pubblicati dall’European Environment Agency (Eea), negli ultimi 40 anni frane e alluvioni sono costate all’Italia 51 miliardi di euro, a fronte dei 36 miliardi della Germania e dei 35 della Francia. Una differenza dovuta soprattutto all’inerzia della burocrazia e ai progetti mai portati a termine per difendere il 16,6 per centro del territorio italiano a elevato rischio idrogeologico, dove vivono 1,5 milioni di concittadini.
Ritardi su ritardi
La denuncia arriva direttamente dalla Corte dei Conti che, nella relazione dello scorso luglio, annovera 7.275 comuni «a maggiore pericolosità» dal punto di vista del «rischio idrogeologico». Per proteggere la popolazione però le risorse spese negli ultimi vent’anni dai vari governi non sembrano sufficienti. Per il progetto ReNDiS (Repertorio Nazionale degli interventi per la Difesa del Suolo) infatti dal 1999 al 2019 in queste zone sono stati finanziati 6.063 interventi per un importo complessivo pari a 6,59 miliardi di euro a fronte di richieste per 26,579 miliardi, una cifra che – scrive la Corte dei Conti – «si può considerare una stima del costo teorico per la messa in sicurezza dell’intero territorio nazionale».
Insomma quasi 1.800 proposte progettuali non sono state finanziate e poco meno di 20 miliardi di euro necessari a tutelare il territorio non sono mai stati spesi. Perché? Le ragioni dei ritardi, secondo la relazione della magistratura contabile, riguardano i tempi della burocrazia.
Stando a un rapporto del 2018 dell’Agenzia per la coesione territoriale, la durata media di tutti gli interventi contro il dissesto idrogeologico finanziati dallo Stato dal 1999 è stata pari a 4,2 anni. La maggior parte di questo tempo è stato impiegato dalle amministrazioni per la progettazione e i cosiddetti «tempi di attraversamento», ossia il periodo intercorso tra la fine di una fase e l’inizio della successiva (progettazione, affidamento dei lavori ed esecuzione delle opere). È proprio qui che risiede il problema, al di là del colore politico degli esecutivi centrali e periferici, una questione che andrà affrontata per evitare di sprecare le poche risorse destinate a questo genere di interventi dal Pnrr.
Nuove risorse, vecchi problemi
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina infatti 2,49 miliardi di euro – presi in prestito dall’Ue – «per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico». È poco più di un decimo della cifra necessaria, il cui obiettivo finale resta la messa in sicurezza dei territori a rischio entro il 30 marzo 2026.
Per i magistrati contabili, vista la scarsità delle risorse assegnate, al fine di evitare sprechi «sarà decisiva la capacità di procedere tempestivamente all’affidamento e realizzazione dei lavori oggetto degli interventi previsti» e ancor più fondamentale sarà «la corretta selezione dei progetti da finanziare».
Ma chi sono i soggetti coinvolti? Questi fondi sono stati ripartiti tra il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, a cui sono stati affidati 1,287 miliardi per gli investimenti e la promozione delle riforme in materia, e il Dipartimento della Protezione civile sotto l’egida della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che riceverà altri 1,2 miliardi per la gestione delle emergenze.
Ora, secondo la Corte dei Conti, «entrambe le Amministrazioni hanno avviato l’attività relativa alla ripartizione delle risorse stanziate in modo celere e coerente con gli obiettivi previsti dal Pnrr», ma se la Protezione civile ha già raggiunto il primo traguardo (che scadeva il 31 dicembre 2021) con la selezione dei progetti da finanziare, entro la fine di quest’anno il ministero guidato da Gilberto Pichetto Fratin deve riuscire a completare la scelta delle iniziative da inserire nel finanziamento del Pnrr per permettere «l’aggiudicazione di tutti gli appalti pubblici per interventi in materia di gestione e riduzione dei rischi idrogeologici» in tempo utile.
Poco male, sottolinea la Corte, perché la tempistica «appare in linea con i tempi medi della fase esecutiva degli interventi». Insomma c’è ancora qualche mese, ma il rischio è di continuare a commettere sempre lo stesso errore: privilegiare la risposta all’emergenza rispetto alla prevenzione.