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Le riforme della Costituzione di Meloni stravolgeranno la democrazia (di Paolo Maddalena)

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, in un momento in cui si affollano numerosi e gravissimi problemi (immigrazione, inflazione, lavoro, crisi ambientale, guerra in Ucraina, smantellamento del Welfare, privatizzazioni, ecc.), ha ritenuto di gettare nell’agone politico il complesso tema della “forma di governo”, omettendo peraltro di dare la precedenza ad argomenti molto più urgenti, come quello della riforma della legge elettorale, lasciato languire per troppo tempo dalle precedenti legislature, con conseguenze nefaste per la nostra rappresentanza politica. Si tratta, comunque, di una materia importante, che, una volta posta all’attenzione dei partiti, non può di certo passare sotto silenzio.

Non sappiamo quale sia il motivo che ha spinto la Meloni a compiere questo passo, ma quello che è certo è che tale questione è apparsa sovente in dottrina, quando è stato posto in evidenza che nei settantacinque anni trascorsi dall’entrata in vigore della Costituzione, si sono avvicendati ben 68 esecutivi (tra rimpasti e crisi politiche) e si è pensato che un correttivo a tale grave inconveniente potesse essere, per l’appunto, un cambiamento della forma di governo. Dico subito che dissento da questa soluzione; tuttavia, se ci si ponesse su questa strada, un principio deve essere tenuto assolutamente fermo: quello dell’“equilibrio dei poteri”. Poiché, come asseriva il Montesquieu, gli abusi sono sempre in agguato e per evitarli è assolutamente necessario che il potere assoluto sia diviso in più poteri parziali ciascuno dei quali deve bilanciare l’altro. 

Purtroppo le soluzioni finora proposte non sembra che rispettino detto principio. La Meloni propone un semipresidenzialismo alla francese, ma questa soluzione, mentre non evita i rimpasti e le crisi di governo (la Francia ne ha avuto finora 68, esattamente come l’Italia), presenta per noi il grave torto di accentrare nel Presidente della Repubblica dei poteri, che snaturerebbero la funzione di “Garante” della Costituzione e degli equilibri tra i vari poteri che la Costituzione stessa gli affida. Altri hanno proposto la nomina diretta del Capo del governo, parlando del “Sindaco” d’Italia. Ma questa soluzione è la peggiore di tutte, poiché il Sindaco d’Italia concentrerebbe in sé una somma intollerabile di poteri. Altri, infine, hanno proposto la costituzione di una Commissione bicamerale per le riforme costituzionali. Si tratta però di un tipo di soluzione che è da scartare, poiché è stata già adottata in passato e ha dato pessimi frutti. 

Tuttavia, se si va alla radice del problema, appare chiaro che la questione della “instabilità dei governi” può agevolmente risolversi, adottando, sull’esempio della Costituzione tedesca, l’istituto della “sfiducia costruttiva”,  nel senso che il Parlamento può esprimere la sfiducia al Capo del governo soltanto nel caso in cui, a maggioranza dei suoi membri, elegga un successore e chieda al Presidente della Repubblica, che è obbligato ad accogliere la richiesta, di revocare il precedente Capo del governo e nominare il nuovo eletto. 

Come si nota, il problema in esame è molto più semplice del previsto. Davvero grave è invece il fatto che restano insoluti altri notevolissimi problemi. Mi riferisco all’uso abnorme dei decreti legge, che sono poi approvati con la mozione di fiducia posta dal governo, e alla permanenza in Costituzione della modifica del Titolo V.

Una modifica che ha sconvolto il testo originario, aumentando a dismisura i poteri delle Regioni, le quali, ora, possono addirittura perseguire i loro interessi, indipendentemente dal rispetto dell’“interesse nazionale” e di quello delle altre Regioni, e, chiedendo l’”l’autonomia differenziata”, possono legiferare nelle materie loro assegnate, indipendentemente dai criteri direttivi posti dallo Stato. Il colmo, poi, è stato raggiunto con l’inserimento tra le competenze statali della materia della “concorrenza”, che ha già avuto ampia attuazione, annientando il “principio fondamentale” della “eguaglianza economica e sociale”, e corrodendo l’essenza stessa dello Stato comunità.

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