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Reportage TPI – Turchia vs Turchia: viaggio in un Paese spaccato tra autoritarismo e speranza di democrazia

«Quando resti troppo al potere, inizi a pensare di essere Dio», dice ridendo Amhet, un giovane artista anglo-turco che incontriamo nel suo studio di Galata, nel lato europeo di Istanbul. «Non servono grandi analisi per capire gli effetti che venti anni di Erdogan hanno avuto sul nostro Paese – commenta mentre incarta un dipinto a una coppia di turiste – basta guardare i prezzi che ogni giorno si alzano un po’ di più quando vai a fare la spesa o sapere che non sei libero di esprimere apertamente il tuo dissenso perché c’è una legge che permette l’incarcerazione anche per un tweet».

È amareggiato Ahmet, come lo è parte della popolazione turca che non si riconosce nelle politiche del presidente più longevo della storia politica di Ankara. Venti anni di un’unica visione, quella conservatrice del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), che è finita inevitabilmente per radicarsi nel tessuto sociale, culturale e politico di un Paese da sempre crocevia tra Occidente e Oriente, terra di una popolazione variegata che oggi si ritrova ancor più spaccata. 

Sovranismo islamico
L’accentramento del potere, la promozione dei valori religiosi musulmani e della famiglia tradizionale, la dialettica polarizzante, la repressione politica, la stretta sulle libertà di espressione e di associazione o sui diritti delle minoranze non ci sono sempre stati. Per capire l’influenza che ha avuto l’uomo più potente della Turchia dopo Ataturk bisogna rimettere le lancette dell’orologio indietro e ricordare come tutto è iniziato. Quando nel 2002 è salito al potere, l’Akp di Recep Tayyip Erdogan riuniva in sé componenti diverse, comprese quelle moderate, curde e liberali. Per un periodo, il Sultano ha rivestito i panni di un riformista capace di dare libertà e diritti e di dialogare con le diversità, garantendo stabilità politica e riuscendo a portare un Paese a maggioranza musulmana ad avviare i negoziati per l’adesione all’Unione europea. «La trasformazione più significativa è iniziata nel secondo decennio di potere Akp», ci spiega Federico Donelli, professore di Relazioni Internazionali all’Università di Trieste e autore di “Sovranismo Islamico. Erdogan e il ritorno della Grande Turchia”. Secondo l’analista, sono stati due in particolare i momenti che hanno segnato un’accelerazione nel processo di regressione democratica: la repressione delle proteste scoppiate nel 2013 in oltre 60 città turche sulla scia della prima mobilitazione avvenuta al Gezi Park di Istanbul e il fallito tentativo di colpo di Stato del 15 luglio 2016. Notte che, nella caccia ai traditori, ha portato all’arresto o al licenziamento di decine di migliaia di persone e alla dichiarazione di uno stato d’emergenza durato circa due anni, strumentalizzato per consolidare poteri autoritari, negare diritti fondamentali e silenziare le voci critiche. «Le azioni intraprese a seguito di Gezi Park e del fallito golpe  – continua l’analista – hanno portato ad una progressiva erosione dall’interno delle istituzioni democratiche e favorito l’accentramento di potere nelle mani del presidente e delle élite politiche ed economiche a lui più vicine. Così il passaggio al sistema presidenziale, sancito nel 2017, ha istituzionalizzato una situazione de-facto già presente».

Contro il pensiero critico
«Vogliamo libertà e diritti per tutti», ci racconta Celim, studentessa 21enne di Scienze politiche all’Università di Istanbul, mentre sorseggia un caffè non lontano dalla facoltà. Tra gli studenti incontrati nella zona universitaria che si estende alle spalle del Gran Bazar è tra i pochi che trova il coraggio di parlare. È ancora aperta la ferita provocata dalla repressione delle proteste studentesche del 2021, quando migliaia di giovani decisero di accamparsi con le tende nei parchi della città per protestare contro la mancanza di dormitori, il carovita e il caro affitti. Un malcontento che aveva raggiunto anche la città costiera di Izmir e che una notte di settembre ha portato all’arresto di quasi 80 studenti. «Abbiamo tutti paura qui – prosegue – non mi stupisco che molti prima di me si siano rifiutati di parlare. Lo scorso febbraio, altri 23 ragazzi sono stati arrestati. Stavano manifestando contro la decisione del presidente di far passare tutte le lezioni universitarie in remoto per liberare gli alloggi studenteschi e dare un tetto temporaneo ai terremotati del 6 febbraio».

L’istruzione pubblica e il sistema scolastico rientrano anche loro a pieno diritto tra le realtà profondamente modificate dall’azione del Governo. Dal 2002 a oggi il sistema educativo è infatti cambiato 17 volte: riforme su riforme che secondo Eğitim-Sen, tra i più grandi sindacati degli insegnanti, hanno depotenziato la qualità degli studi. Un apprendimento minacciato anche nella sua parte più profonda, ovvero la trasmissione del sapere e la formazione di un pensiero critico. La mancanza di libertà che oggi pervade la società turca pone infatti un forte limite al lavoro del docente, a ciò che può o non può dire. «L’istruzione pubblica, che dovrebbe rappresentare uno spazio di discorso equo e libero, sta affrontando un collasso, con le università e le scuole che stanno regredendo e vogliono far rimanere gli studenti dei bambini», scrive in una nota l’Unione dei docenti, che negli anni non ha mancato di denunciare i tagli governativi dei fondi destinati all’istruzione.

«A noi studenti è proibito parlare pubblicamente di politica – continua Celim, tra un sorso di caffè e l’altro – e il governo ci ha fortemente sconsigliato di avere legami con partiti o movimenti studenteschi. Una situazione assurda, specialmente per chi come me si trova a studiare in percorsi che la includono». «E quindi come fate?», le chiediamo. «Prima di poterci esprimere dobbiamo capire chi sono i nostri professori – risponde dopo aver fatto spallucce – fuori dall’università invece dobbiamo guardarci sempre attorno prima di iniziare una conversazione tra amici o colleghi di studi». «Devi pensare che non possiamo nemmeno mettere like ai post che i partiti fanno sui social», esclama di colpo Damla per assicurarsi che abbiamo compreso fino in fondo cosa devono affrontare quotidianamente. Accanto a lei, avvolta in un hijab rosa pallido, siede Myriam. «Ci piacerebbe viaggiare, vivere come gli altri ragazzi», ci racconta sospirando. Poi beve un sorso di cay e aggiunge: «Erdogan ci mette gli uni contro gli altri, che sia per la religione, per l’orientamento sessuale o per l’etnia, ma noi non vogliamo più vivere così. Ci sentiamo oppressi e sogniamo libertà e secolarizzazione. La religione deve stare fuori dallo Stato e dalle scuole».

Nate lo stesso anno in cui Erdogan saliva al potere, le tre amiche non hanno mai conosciuto altro leader al di fuori del Sultano. Come loro tutta la Generazione Z, nata tra il 1997 e il 2012, e buona parte di quella precedente dei Millenials. Un gruppo che messo insieme rappresenta oltre il 34% degli 82 milioni di turchi e che hanno distrutto, almeno in buona parte, il sogno del leader dell’Akp di allevare una «generazione pia». Ma molti giovani turchi stanno cercando di liberarsi dalle catene della religione e di godere di maggiori libertà civili.

«Avere 20 o 30 anni in Turchia è difficile. L’istruzione è pessima, la disoccupazione giovanile è alle stelle, l’inflazione galoppa e ti mangia tutto ciò che guadagni. Aggiungici poi che non ti senti mai veramente libero», ci spiega Amhet mentre espone i suoi dipinti sulla via affollata di turisti. «Io sono fortunato perché me ne posso andare, ho anche la cittadinanza britannica, ma gli altri no. Devono rimanere qui ed è davvero difficile. Mi do tempo cinque anni e se la situazione non migliora me ne andrò via».

Disparità diffuse
Se le interferenze delle politiche autoritarie, patriarcali e conservatrici del Sultano possono influire sulla vita di un uomo di etnia turca, musulmano e cisgender che vive a Istanbul, non è difficile immaginare le enormi ripercussioni che possono avere su quella delle donne, di chi appartiene alla comunità Lgbtq+ o a una minoranza religiosa o etnica, come quella dei curdi. 

«Erdogan e l’Akp – ci spiega l’analista Donelli – sono stati e sono espressione di una Turchia conservatrice, a tratti ultra-conservatrice, portatrice di istanze che sono quelle tipiche di una società fortemente patriarcale e declinate in salsa musulmana».

Sebbene il Sultano si sia presentato alle prime elezioni come promotore di maggiori libertà e diritti per le donne, facendo del loro voto uno dei pilastri del lungo successo dell’Akp, oggi la situazione è ben lontana da quei tempi. La forte base di elettori donne, prevalentemente casalinghe, ancora c’è ma alle politiche rivoluzionarie che hanno portato per esempio all’introduzione dei tribunali per la famiglia e di un codice penale riformato per garantire maggiori tutele, negli ultimi anni si è contrapposto il ritiro del Paese dalla convenzione per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, conosciuta anche con il nome della megalopoli turca Istanbul, dove è stata siglata nel 2011. Una mossa che ha suscitato l’indignazione e le proteste di gran parte della società civile del Paese e lo stupore internazionale. «Erdogan in passato ha detto che l’uguaglianza di genere è contro la natura umana e che le donne lavoratrici sono difettose», ci ricorda arrabbiata Myriam, la giovane dall’hijab rosa mentre insieme a Damla e Celim passeggiamo lungo la piazza su cui si staglia, maestosa, l’entrata dell’Università di Istanbul. «C’è di più – aggiunge Damla – l’ufficio degli Affari Religiosi in Turchia è arrivato a dire in tv che le donne non dovrebbero viaggiare da sole, ma accompagnate da un figlio o da un marito». E poi ci sono i continui attacchi per limitare i diritti all’aborto, all’accesso alla pillola del giorno dopo o ai tagli cesarei e la totale immobilità del Governo nel contrastare la piaga del femminicidio, che nel 2022 ha contato 334 vittime e oltre 400 morti sospette. A fare il conto delle vite perse ogni giorno è “We will stop femicide”, il più grande gruppo di attiviste per i diritti delle donne del Paese, oggi a rischio chiusura con l’accusa «agire contro la legge e la moralità».

Un altro dato utile a comprendere il grado di deterioramento della condizione femminile lo offre il Global Gender Gap Index Report, che analizza il divario di genere tra diversi Stati del mondo. Nel 2006 la Turchia di Erdogan si posizionava 105esima su 146 Paesi, nel 2022 è scesa alla 124esima posizione. Nel frattempo l’uso del termine “parità di genere” è sparito dai documenti governativi. E non se la passa meglio la comunità Lgbtq+. Nel Paese in cui l’omosessualità è legale sin dal 1923, anno della proclamazione a Repubblica, sotto il governo di Erdogan i diritti e le libertà della comunità arcobaleno anziché aumentare sono colati a picco. «Una degenerazione», per il Sultano, da cui i ragazzi devono tenersi alla larga. La rovina del modello di famiglia tradizionale tanto caro al Presidente. E così dal 2015 le sfilate Lgbt+ vengono vietate e per chi sfida il divieto ad attenderlo ci sono gas lacrimogeni, botte e arresti.
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