«Vivevamo in paradiso. Pensammo che sarebbe stato incredibile salvarlo. Decidemmo di farlo». Kristine McDivitt Tompkins ha 72 anni, la carnagione chiara, i capelli sottili e biondi. Gesticola con disinvoltura e un misto di entusiasmo e malinconia negli occhi mentre parla dell’impresa avviata con il marito, il filantropo multimiliardario Douglas Tompkins, quando all’inizio degli anni ‘90 il fondatore del marchio The North Face decise di abbandonare il business dell’abbigliamento sportivo per acquistare centinaia di migliaia di ettari di terra in Patagonia e farne dei parchi nazionali. L’obiettivo era quello di bloccare il depauperamento della natura, testimoniata in decenni di escursioni, scalate, avventure in kayak e voli a bassa quota in elicottero. Anni in cui il pilota aveva assistito allo scioglimento dei ghiacciai, al prosciugamento dei fiumi, agli incendi boschivi e agli altri effetti dei cambiamenti climatici su un’area che conosceva da quando, abbandonata la scuola superiore negli anni ‘50, aveva iniziato a guadagnarsi da vivere lavorando da guida alpina. Alpi, Himalaya, Colorado, Pirenei, Patagonia.
Di quella terra al confine tra Cile e Argentina amava le linee armoniche disegnate dalla natura quando il suolo cambia colore, le cascate, i fiumi, le geometrie create dall’effetto del vento. Sfumature di rosso, giallo, verde, azzurro e poi ancora rosso fuoco, che gli permisero di sviluppare un amore incondizionato per l’ambiente e poi quello per la futura moglie, Kristine. Quella di Doug e Kris Tompkins è una storia di passione, spirito di iniziativa, perseveranza e forza d’animo, che in 20 anni di impegno costante ha dato vita alla creazione di 15 parchi nazionali e alla rinaturalizzazione di oltre 5 milioni di ettari di terra e 12 milioni di ettari di Oceano tra Cile e Argentina, nonché alla più grande donazione di terra mai fatta da un privato a un’autorità pubblica: dopo la morte del marito nel 2015, Kris Tompkins ha deciso di terminare l’opera trasferendo 400mila ettari restaurati in Cile al governo, allora presieduto dalla premier Verónica Michelle Bachelet, e di fare lo stesso con i terreni custoditi in Argentina. Rimanendo però a vegliare sulla conservazione di quel pezzo di mondo attraverso l’opera di due Ong locali – Rewilding Cile e Rewilding Argentina – e della fondazione Tompkins Conservation, che tutt’oggi si occupano di restaurare gli ecosistemi naturali in Patagonia per invertire gli effetti dei cambiamenti climatici.
Le origini
La storia dei due filantropi e del più ambizioso progetto di restaurazione degli ecosistemi in Sud America affonda le sue radici alla fine degli anni ‘50, quando il 18enne americano Douglas R. Tompkins, insofferente alla scuola, abbandona il Connecticut per dedicarsi agli sport estremi, sciando e scalando rocce tra l’America e l’Europa. Una passione che lo porta a fondare, nel 1963, a soli 20 anni, un servizio di guide alpine, e un anno dopo quella che sarebbe diventata l’azienda di riferimento per gli amanti dell’outdoor: The North Face. Negli anni ‘80 il marchio planetario vanta già un fatturato di milioni di dollari, una sede in Europa e un successo mondiale, ma i traguardi raggiunti in ambito imprenditoriale non sono abbastanza per Tompkins, mosso da un animo avventuriero e dall’amore per la natura. Alla fine del decennio il businessman avverte l’esigenza di compiere scelte più incisive e radicali in favore dell’ambiente e di abbandonare il mondo degli affari. Decide così di vendere le quote delle aziende che possiede (tra cui anche il marchio Esprit, fondato insieme alla prima moglie) e di approfittare della fortuna accumulata per portare avanti una missione più urgente: combattere l’inesorabile avanzamento del riscaldamento globale. «Capì che distruggere la natura significava distruggere noi stessi», racconta Yvon Chouinard, tra i migliori amici del filantropo e patron del brand Patagonia, nel documentario del National Geographic “Wild Life”, che racconta la parabola dei Tompkins e della rete che ha realizzato il loro sogno. Di questa fa parte anche il Ceo di Patagonia, che l’anno scorso ha donato l’azienda a un trust e ad un’organizzazione no profit ambientalista. Una scelta arrivata dopo anni di impegno per il clima e di lavoro al fianco dell’amico di avventure e di sua moglie.
Una lunga storia d’amore
Prima di incontrare Doug Tompkins, Kristine fa parte del team di Patagonia. Nata nel 1950 in California in una famiglia numerosa, inizia a lavorare insieme all’amico d’infanzia e appassionato di scalate Yvon a soli 15 anni, aiutandolo nella gestione della Chouinard Equipment, negozio di attrezzatura sportiva. Inizia così a sviluppare la sua passione per la vita selvaggia. Dopo il college torna ad affiancare Chouinard nella creazione del marchio Patagonia e nella trasformazione dell’azienda in un business virtuoso, che – tra le varie innovazioni – sostituisce ai chiodi utilizzati dagli scalatori per le arrampicate i dadi di alluminio, meno dannosi per le rocce, e a partire dal 1980 inizia a donare ogni anno il 10 per cento dei profitti a organizzazioni ambientaliste. Kris è ormai amministratrice delegata di Patagonia quando, all’inizio degli anni ‘90, partecipa a un viaggio in Cile organizzato dall’azienda, dove incontra il suo futuro marito. All’epoca stava per sposare un’altra persona. «Era molto affascinante, pensai che era lui l’uomo che avrei dovuto sposare». I due si innamorano come adolescenti, ma ad unirli non c’è solo l’attrazione. «Il desiderio di salvare la natura è il legame più grande che una coppia può creare» racconta ancora Kris agli autori di “Wild Life” (disponibile su Disney+ a partire dal prossimo 26 maggio). La passione per la natura e l’istinto di proteggerla sancisce un’unione che durerà a lungo e li condurrà lontano.
Quando si sposano, nel 1993, Doug Tompkins ha già acquistato il primo e più grande lotto di terra in Cile, 800mila ettari nella provincia sudorientale di Palenas, che si estende dal confine con l’Argentina fino all’Oceano, per creare il Pumalin Park, tutt’oggi il più grande parco nazionale del Sud America. A questo seguiranno il parco nazionale di Corvovado, una foresta pluviale temperata nella regione di Los Lagos, quello di Ibèra, in Argentina, fino a un totale di 15 parchi nazionali – di cui 10 in Cile e 5 in Argentina – due parchi nazionali acquatici e oltre 20 progetti di conservazione. La mentalità del filantropo è rimasta sempre la stessa: acquistare terra e occuparsene in prima persona per evitare che l’abbandono e l’azione scellerata dell’uomo la danneggi, renderla nuovamente selvaggia, preservare la biodiversità favorendo il ciclo naturale degli ecosistemi e infine permettere anche alla popolazione locale di beneficiarne e usufruirne. Una visione di lungo termine che ha richiesto anni di lavoro costante con i governi e le comunità locali, in principio osteggiata dall’opinione pubblica e dall’opposizione politica in un Paese che non aveva familiarità con l’acquisizione di terreni privati su larga scala, o con il mondo delle organizzazioni ambientaliste. I quotidiani nazionali cileni definivano Tompkins «un commerciante con la faccia di ecologista», un «ecoterrorista» interessato a creare nuovi profitti o a fare del parco una discarica di scorie nucleari. I risultati ottenuti nel tempo hanno smentito le accuse, perché i Tompkins non si sono limitati a possedere la terra. Hanno lavorato sul campo al fianco di un folto gruppo di esperti per prendere le decisioni migliori, guadagnando la fiducia delle comunità locali e circondandosi di una squadra di fedelissimi. Biologi, scienziati, ambientalisti, attivisti che grazie all’azione dei due filantropi sono riusciti a realizzare il sogno di “rinaturalizzare” grandi porzioni di terra in Patagonia re-introducendo le specie in via di estinzione e ricomponendo la catena alimentare.
Il sogno di una vita
Sofia Heinonen è una delle biologhe che ha partecipato all’istituzione dei parchi naturali in Argentina e che oggi presiede la Ong “Rewilding Argentina”. Ha conosciuto Doug e Kris Tompkins nel 2000, quando l’impresa della coppia in Cile era già nota agli esperti del settore. «A quel tempo lavoravo nei parchi nazionali del Paese come biologa, studiavo i mammiferi e la situazione delle specie in pericolo all’interno dei parchi», racconta a Tpi. La incontriamo a Londra a margine dell’anteprima europea del documentario del National Geographic. Indossa un cappello giallo ocra a chiazze nere fatto a mano, ispirato ai colori del giaguaro, il predatore principale che la Ong ha reintrodotto dopo 15 anni di lavoro con la popolazione locale, grazie al supporto della Tompkins Conservation. Per Heinonen riportare indietro il giaguaro, di cui nel 2000 rimanevano pochi esemplari in tutto il Paese, ha rappresentato il più grande traguardo professionale, nonché la realizzazione di un sogno. «Quando, quattro anni dopo il primo incontro, Doug e Kris mi invitarono a far parte del team del parco nazionale di Ibèra per gestire i progetti di conservazione e lavorare alla reintroduzione del giaguaro, mi sembrava di aver vinto la lotteria. Non capita a tutti di incontrare qualcuno che ti permette di realizzare quello che studi da sempre. Per tutta la vita avevo lavorato a favore delle specie a rischio estinzione e per la loro protezione. Facevo parte da 14 anni del sistema dei parchi nazionali ed ero frustrata perché i governi non avevano una visione che andasse oltre le elezioni, tutto cambiava ogni quattro o cinque anni. Ti impegnavi ma il governo successivo cambiava politica», racconta. «Con la natura devi avere un atteggiamento costante e lavorare duro: raggiungere grandi risultati richiede tempo. Avere due persone decise a raggiungere sempre gli stessi obiettivi senza cambiare idea ogni quattro o cinque anni è stato incredibile. Doug era un pilota, viaggiava moltissimo per lunghe distanze e vedeva come l’erosione, la desertificazione e la siccità stavano trasformando la terra dappertutto. Questo gli permise di capire che era necessario cambiare velocemente comportamento e velocizzare i processi di conservazione. In Argentina sorvolò le terre paludose a nord ovest, nella provincia di Corrientes, e vide che c’era un’area molto ampia e deserta. Quello era il posto adatto per far tornare il giaguaro».
Il ritorno del giaguaro
Il metodo di reintroduzione di 13 esemplari di giaguaro all’interno del parco nazionale di Ibèra mostra come il raggiungimento degli obiettivi più ambiziosi richiede un impegno lungo e costante. 15 anni di lavoro e coordinamento con i governi e con le comunità locali per preparare il ritorno del grande mammifero. «Dovevamo cambiare l’economia – spiega la biologa – affinché la popolazione potesse vedere la presenza del giaguaro come un valore. All’epoca c’era una cultura di allevamento, ma pian piano le persone hanno capito che potevano aprirsi grandi opportunità per il turismo e potevamo dare ai visitatori del parco la possibilità di osservare la natura selvaggia come in Africa. Nel 2021 il governo ci ha autorizzato a liberare i giaguari perché le persone lo stavano chiedendo».
Il giaguaro è il terzo felino più grande al mondo e il più grande d’America. Il suo mantello giallo striato di nero gli permette di mimetizzarsi facilmente, nascondersi tra le piante o arrampicarsi sugli alberi per attaccare le prede: oltre 85 specie tra mammiferi, rettili e uccelli, di cui è il predatore principale, in una catena alimentare in cui si trova al vertica. Significa che non viene mangiato da nessun altro animale. La presenza del mammifero all’interno del suo ambiente naturale è fondamentale per conservare la biodiversità degli ecosistemi. «Il suo ruolo è importante non perché mangia gli altri animali. Garantire la presenza del primo predatore significa far sì che le altre specie, per difendersi dal giaguaro, si organizzino di conseguenza, lungo i fiumi, nelle foreste, nei boschi, senza invadere gli spazi che non gli spettano, conservando il naturale equilibrio dell’ecosistema», prosegue Heinonen. Attualmente i giaguari presenti nel parco sono ufficialmente 13, di cui un solo esemplare maschio, ma l’esperta non esclude che quest’anno siano nati nuovi cuccioli e che dunque la popolazione sia in realtà più numerosa. Nei prossimi due anni è prevista l’introduzione di altri quattro esemplari, due maschi e due femmine. Il progetto intanto ha permesso l’introduzione di altre specie a rischio: la formica gigante, il cervo delle pampas, i pecari e l’ara rossa e verde, un grande pappagallo che può percorrere migliaia di chilometri in volo fino ad attraversare il confine con il Paraguay. Rewilding Argentina sta preparando anche l’arrivo delle lontre giganti dall’Europa. L’obiettivo è quello di ristabilire il completo funzionamento dell’ecosistema per combattere il riscaldamento globale. Secondo gli scienziati della Global Rewilding Alliance – un network di esperti e organizzazioni che sostiene che la natura sia la migliore soluzione ai cambiamenti climatici – garantire il completo funzionamento della catena alimentare e proteggere i grandi predatori che la governano, infatti, determina conseguenze positive a castata, come il controllo delle popolazioni di rapaci erbivori, che consente alle piante di prosperare e immagazzinare più carbonio, con un grande effetto stabilizzante sul clima. «Pensiamo che un ecosistema completo e funzionante possa catturare porzioni maggiori di CO2 all’interno del suolo e della vegetazione, riattivando il ciclo naturale del carbonio», spiega la biologa. Attraverso un finanziamento del National Geographic, nei prossimi quattro anni la Ong misurerà gli effetti della rinaturalizzazione all’interno del parco. «Andremo a misurare tutte le relazioni ecologiche nell’ecosistema, i cambiamenti nella vegetazione, nei comportamenti delle prede e nella competizione tra predatori», conclude Heinonen, e aggiunge: «Tutto questo non sarebbe stato possibile senza la presenza costante di Doug e Kris sul campo. Hanno vissuto con noi, senza mai perdere di vista la visione di quello che stava accadendo su larga scala».
La restituzione
Douglas Tompkins è deceduto l’8 dicembre del 2015 facendo quello che amava di più: vivere la natura. Stava attraversando il lago General Carrera, nel Cile meridionale, insieme a Yvon Chouinard e altri cinque compagni di avventura in kayak quando le onde troppo alte hanno fatto ribaltare il suo mezzo. Ha trascorso ore nell’acqua gelata. È morto in ospedale per una grave ipotermia. Aveva 72 anni. La moglie Kris all’epoca ne aveva 65. «Quello che di peggio poteva accadermi, era accaduto», racconta nel documentario. «Ero in ginocchio». In quel momento per lei si apre un bivio: soccombere o risorgere. Dopo un periodo di depressione capisce che può reagire solo raccogliendo la grande eredità lasciata dal marito diventandone guardiana e custode, continuando a lavorare al sogno coltivato in 22 anni di matrimonio e lavoro continuo: completare la restaurazione dei parchi naturali e restituire la terra. «Non si è fermata fino a quando non ha donato le terre al governo assicurandosi che fossero protette dalla legge», ricorda Heinonen. Il 15 marzo del 2017 Kris Tompkins ha firmato insieme alla premier cilena Bachelet un accordo per la più grande donazione di terra mai fatta da un privato: 400mila ettari, una superficie tre volte superiore a quella dei parchi di Yosemite e Yellowstone messi insieme. L’impegno è quello di creare altri cinque nuovi parchi nazionali e una rete di aree protette di migliaia di ettari, da Puerto Montt fino a Capo Horn. Se oggi qualcuno le chiede se ha ancora speranza, Kristine perde la pazienza. «Sono stanca delle persone che mi chiedono se abbia speranza in quello che stiamo facendo, perché sento che questo sentimento sta diventando un modo di abdicare alle proprie responsabilità. Tu speri che qualcuno lì fuori stia agendo per cambiare le cose che non ti piacciono. Ma io credo che devi meritarti, guadagnarti la speranza, agendo in prima persona», racconta a margine della proiezione del documentario nel Regno Unito. «Ci svegliamo ogni giorno e decidiamo di agire cercando di pensare agli effetti nel lungo periodo, ma non sappiamo come finirà. Alla fine di settembre del 1989 non sapevamo che il muro di Berlino stava per crollare. È caduto quattro settimane dopo. Abbiamo visto i cigni neri piombare sui mercati finanziari senza vederli arrivare. Quindi perché non continuare ad andare avanti mossi dai nostri valori e da quello che pensiamo sia giusto realizzare? Forse riusciremo ad attraversare questo tunnel e a salvarci, a ritrovarci un giorno dall’altra parte. Milioni di persone nel mondo stanno facendo lo stesso».
Wild Life, il film
Disponibile sulla piattaforma Disney+ a partire dal 26 maggio, Wild Life è il documentario del National Geographic che racconta la storia di amore e di lotta della coppia di filantropi Douglas e Kristine Tompkins dagli albori fino ai giorni nostri. Diretto dai registi Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin (premi Oscar per il miglior documentario “Free Solo” nel 2019), è stato prodotto dalla Little Monster Films per la National Geographic Documentary Films e presentato in anteprima nel 2023 al South by Southwest Film Festival a Austin, in Texas.