Oussama Sghaier è cresciuto in Italia da rifugiato politico. I suoi genitori erano oppositori del regime di Ben Ali, rimasto al potere in Tunisia per oltre 23 anni dal 1987. Ha studiato Scienze politiche e in particolare Diritto costituzionale e poi nel 2011 è tornato nel suo Paese d’origine, dove da deputato dell’Assemblea Costituente e membro del partito islamico moderato Ennahda (che significa Rinascita) ha contribuito a scrivere la Costituzione democratica del 2014.
Rieletto più volte all’Assemblea dei rappresentanti del popolo, di cui è stato anche vicepresidente, oggi è di nuovo in esilio in Italia, da quando il presidente della Tunisia, Kais Saied, ha assunto i pieni poteri con il golpe del luglio 2021, estromettendo il Parlamento e stilando una nuova Costituzione presidenziale, il tutto seguito dall’incarcerazione di attivisti e oppositori, non ultimo l’arresto del leader 81enne di Ennahda, Rashid Ghannushi.
Che segnale è?
«È il sintomo delle difficoltà del regime».
Si spieghi.
«Saied è al potere dal 2019 e ha compiuto un colpo di Stato nel 2021, oggi però siamo nel 2023. Se avesse voluto, avrebbe potuto far incarcerare subito tutti i suoi oppositori invece preferisce distribuire nel tempo gli arresti, in base alle difficoltà politiche e sociali che si trova ad affrontare».
Qual è la situazione oggi in Tunisia?
«È un Paese in crisi. La disuguaglianza tra le regioni costiere e le aree interne resta drammatica. La disoccupazione giovanile è altissima. Spesso e volentieri manca la benzina e persino pane e farina arrivano a scarseggiare a causa delle conseguenze della guerra russa contro l’Ucraina. Saied dà la colpa agli speculatori e ogni tanto fa arrestare qualche oppositore su cui scarica la responsabilità. È strano però, tra gli arrestati non c’è mai un uomo d’affari, sono tutte figure politiche, attivisti, avvocati o persino conduttori radiofonici critici con il suo regime».
Facciamo un passo indietro. Come si è arrivati a questo punto?
«Nel 2011, il popolo tunisino era stanco del regime cleptocratico di Ben Ali e così si ribellò. Allora riuscimmo a instaurare una democrazia multipartitica che portò, anche con il mio contributo, alla stesura della Costituzione del 2014 di cui andiamo ancora fieri. Purtroppo, il sistema avrebbe avuto bisogno di tempo per affermarsi e mentre eravamo impegnati a costruire un Paese democratico tra mille difficoltà, la politica si trovò a dover affrontare le conseguenze della guerra in Libia, della crisi finanziaria e del terrorismo, con evidenti effetti negativi sul turismo e gli scambi commerciali con l’Unione europea, che hanno affossato ancora di più una situazione economica resa già difficile dalla recessione del 2008».
La Tunisia era considerato l’unico esempio riuscito della Primavera araba, che cosa non ha funzionato?
«In un certo senso, una parte del regime è risorta dopo la rivoluzione ed è tornata ai vertici della politica con il partito Nidaa Tounes, fondato dall’ex presidente Beji Caid Essebsi, che aveva cominciato a frantumarsi già prima della morte del suo fondatore. Da allora, il difficile equilibrio politico fondato sulla volontà di Ennahda e Nidaa Tounes di intraprendere un percorso democratico ha retto per qualche anno le sorti del Paese, cercando di far fronte alla crisi anche con l’aiuto del Fondo monetario internazionale. Tuttavia le riforme richieste non sono state realizzate, anche perché in parte andavano contro le necessità della popolazione, richiedendo il contenimento della spesa statale che avrebbe comportato ulteriori sacrifici per i cittadini. La responsabilità però non è esterna ma della politica. Presi dalla costruzione di un regime democratico, che nel 2015 è valso persino un premio Nobel per la pace alle quattro organizzazioni che hanno contribuito alla transizione, non siamo riusciti a far fronte ai bisogni urgenti della popolazione, che dopo la caduta di Ben Ali nutriva grandi aspettative, purtroppo in gran parte rimaste deluse. Così, nel 2019, dopo la morte di Essebsi, è stato eletto un outsider, il giurista Kais Saied».
Chi è Saied e come è arrivato al potere?
«È stato eletto nel 2019 sull’onda del malcontento popolare per l’incapacità del sistema partitico di risolvere la crisi e, nei primi due anni del suo mandato, ha fatto di tutto per gettare benzina sul fuoco. Ha cavalcato il malcontento popolare per la gestione del Covid, che in Tunisia ha causato decine di migliaia di morti, e ha approfittato della debolezza dei partiti per compiere un golpe nel luglio 2021 ed esautorare il Parlamento, schierando i carri armati davanti alle sedi istituzionali».
Che cosa si propone?
«Il suo è un confuso programma politico, annunciato già nel 2013, che ricorda la jamahiriyya di Gheddafi. Ma è un uomo solo, che si circonda di collaboratori poi spesso licenziati, come l’ex ministro dell’Interno, Taoufik Charfeddine, o la sua ex fedelissima capo di gabinetto Nadia Akacha, che è dovuta fuggire dal Paese. Per stilare la sua costituzione del 2022, che ha sostituito quella democratica, non ha consultato nessuno dei partiti e delle organizzazioni che hanno appoggiato il suo golpe. Ha riunito una commissione di giuristi, che gli ha presentato un testo, da lui stesso interamente sostituito con un altro. Alla fine è stata approvata con un referendum, a cui però ha partecipato solo un terzo degli aventi diritto. Un’affluenza scesa all’11 per cento alle successive elezioni parlamentari, boicottate da tutta l’opposizione. Questo dà l’idea della legittimità del regime».
Le proteste però sono ancora limitate.
«La propaganda è fortissima ma i consensi sono in calo. Saied fa di tutto per mantenere il potere, anche con l’arresto degli oppositori, in particolare dei politici di lungo corso con cui la popolazione è ancora arrabbiata per i fallimenti degli anni scorsi. Il regime però è al potere da quasi due anni ormai e non ha risolto nulla. Non ha fatto le riforme necessarie e la situazione economica resta grave. Ha trasformato la crisi economica in un’emergenza democratica e cerca solo di nascondere i problemi, ma non può durare per sempre. Soprattutto i giovani se ne stanno accorgendo».
La crisi politica è legata quindi all’emigrazione?
«Certo. I giovani sono intelligenti, sanno che così non ci sono soluzioni e decidono di andarsene: è l’unico modo che hanno. Ma non riguarda solo loro, fuggono intere famiglie, anche di lavoratori pubblici. Se prima del golpe erano in difficoltà, ora hanno perso la speranza nel loro Paese».
Sostenere Saied quindi, sarebbe controproducente per il contrasto all’immigrazione?
«Non farà altro che spingere migliaia di altri giovani a scappare dal Paese. Non dialoga più con nessuno ormai e non parlo di Ennahda, di cui ha incarcerato tutti i vertici, ma dei sindacati, delle associazioni degli imprenditori e persino dei partiti che l’hanno sostenuto. Il suo fallimento è evidente dai dati economici e dai numeri sull’emigrazione. Purtroppo tra i suoi sostenitori c’è anche l’Italia, che pensa solo all’immigrazione e non capisce che i problemi sono connessi».
Che effetto ha la posizione dell’Italia?
«Mi dispiace dirlo, perché ormai mi sento anche un po’ italiano, ma il vostro è l’unico tra i Paesi democratici a non aver speso mezza parola sulla repressione politica in Tunisia. Quando gli oppositori sono stati arrestati, quando sono stati schierati i carri armati davanti al Parlamento, quando è stata cancellata la Costituzione democratica, l’Italia non ha detto nulla. In questi due anni sono successe tante cose e tutte le volte l’Unione europea, gli Stati Uniti, persino la Francia hanno condannato gli arresti arbitrari. L’Italia no e non è un problema solo dell’ultimo governo».
Tra Draghi e Meloni cos’è cambiato nel rapporto tra Roma e Tunisi?
«Draghi fece solo una chiamata e parlò di immigrazione. Ma l’attuale governo è diverso. Roma è l’unica a voler finanziare la Tunisia, anche a prescindere da un programma concordato di riforme, richiesto dal Fondo monetario internazionale. Il vostro esecutivo appoggia politicamente il regime di Saied e si sta mettendo nelle sue mani, senza sapere chi ha davanti».