Quando nel 2008 si ebbe la prima sostanziale crisi di sistema di quel complesso di valori e norme che l’Occidente e il pianeta intero hanno preso a unico riferimento e che conosciamo da qualche secolo sotto il nome di capitalismo, sentimmo parlare per la prima volta di crisi della classe media.
A distanza di 15 anni da quel sostanziale default dell’Occidente, la recessione è rientrata solo grazie a un’inedita erogazione di soldi pubblici verso le bad company di banche infestate da titoli tossici e a un’enorme immissione di liquidità da parte degli istituti centrali per tenere in piedi un’economia reale che altrimenti avrebbe corso seri rischi. Ricordiamo tutti il periodo dell’austerity, la troika Bce, Fmi, Ue, la crisi del debito della Grecia, ecc. Sono stati anni in cui i risparmi delle famiglie italiane sono calati a picco e in cui l’impoverimento generale dei cittadini europei ha determinato la scomparsa della classe media.
Solo per offrire un dato che restituisca il livello in cui è caduta oggi la classe media italiana rispetto alla sua storia di risparmiatrice: si è passati dal 26 per cento di risparmio annuale sul reddito della fine degli anni Settanta, al 2 per cento del 2020, ultimo anno in cui il dato è attendibile perché non inficiato dalla questione pandemica.
Questione generazionale
È da questi dati che bisogna partire per comprendere una mutazione della società italiana che ha assistito negli ultimi vent’anni a un impoverimento generale della popolazione con un indice di decrescita verticale e che vede la scomparsa del concetto di “agiatezza economica” per un’intera fetta della popolazione italiana.
I dati Istat raccontano uno scenario che vede la popolazione produttiva del Paese, composta da circa 40 milioni di cittadini, con il 75 per cento di questi che attesta il suo reddito sotto i 26mila euro l’anno, e di questi ben il 45 per cento sotto la soglia dei 18mila. Di fatto, i tre quarti degli italiani non sono nelle condizioni di affrontare le normali spese quotidiane legate al sostentamento indispensabile, senza incappare in problemi di sostenibilità economica nella capacità di affrontare la spesa corrente.
Vent’anni di crisi della classe media, dunque, hanno portato a un adattamento della popolazione attestando alcune fasce della cittadinanza – in particolare, le categorie di età under 30 e under 40 – dai livelli di agiatezza delle generazioni over 60, protagonisti dei decenni Settanta e Ottanta, ai livelli di sostanziale sopravvivenza dei nostri giorni.
Nulla di nuovo, dunque, su uno scenario che sostanzialmente è noto – seppur nella sua tendenza negativa – da almeno un decennio, non fosse che dall’inizio del 2021, con una accelerazione sul 2022, ad oggi la situazione sia nettamente peggiorata e in alcune zone del Paese i livelli di sopravvivenza di cui sopra non sono più garantiti alla maggior parte della popolazione. Lo scenario post-Covid, che già aveva delineato nel 2021 un ritorno dell’inflazione, dopo decenni di sostanziale stagflazione, è poi esploso nel 2022 con un forte inasprimento degli indici di inflazione “core”, ovvero quella parte di inflazione che misura il costo dei beni di prima necessità.
Causa trainante dell’aumento di tutti i beni di prima fascia è stata l’esplosione incontrollata del costo dell’energia, dovuta in buona parte alla guerra in Ucraina e alle sanzioni applicate alla Russia. A questo scenario si è aggiunto, dalla metà dell’anno scorso, un vertiginoso aumento del prezzo sul bene casa, un aumento indotto essenzialmente da mancate politiche sulla regolamentazione degli affitti brevi – Airbnb, Booking, ecc. – e dai continui aumenti sui tassi d’interesse effettuati dalla Bce a firma Christine Lagarde che, dal luglio 2022 a oggi, ha discutibilmente portato il costo del denaro da un interesse nullo fino al 4 per cento di oggi.
Centri (e costi) insostenibili
È dell’agosto 2023 la notizia che a Bologna mancano insegnanti per le scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado. La situazione, a guardar bene, coinvolge tutta l’Emilia Romagna e la Lombardia. A fronte di una richiesta di 2.137 posti disponibili, solo 17 docenti hanno presentato la candidatura. In Lombardia, su circa 2.600 posti disponibili, sono arrivate poco più di un centinaio di disponibilità.
Lo scenario si estende anche agli infermieri e al personale impiegato nella sanità. Sempre a Bologna è emerso nell’ultimo mese un dato preoccupante: 270 infermieri si sono dimessi per andare via dalla città che considerano troppo costosa. Un dato che si somma ai 180 licenziamenti volontari del 2021 e che conferma una tendenza negativa sull’attrattività di un mestiere storicamente considerato un posto sicuro con un buon stipendio. Un fenomeno, questo, dell’esodo di massa di alcune professionalità che sta preoccupando molto sia i dirigenti di settore che le pubbliche amministrazioni.
Per Michele Bulgarelli, segretario generale della Camera del Lavoro di Bologna, si tratta di una vera e propria emergenza a cui va cercata subito una risposta, altrimenti il rischio è quello di un declassamento qualitativo dell’offerta professionale nelle grandi città in settori strategici in cui oggi il livello è molto alto (si veda per esempio la sanità a Bologna presa a riferimento da tutto il Paese).
Raggiunto al telefono da TPI, Bulgarelli spiega come il problema sia innanzitutto dovuto alla perdita del potere di acquisto dei lavoratori pubblici. In un Paese dove il settore della pubblica amministrazione è continuamente oggetto di spending review e blocchi del turnover, nonostante i numeri degli impiegati pubblici siano tra i più bassi in Europa (il 13,6 per cento della popolazione lavorativa, molto meno rispetto alla Francia con il 19,6 per cento, o alla Spagna e al Regno Unito, con il 16 per cento), con una pubblica amministrazione italiana che si conferma vecchia (in media 50 anni di età), scarsamente aggiornata (mediamente 1,2 giorni di formazione per dipendente l’anno), e in difficoltà ad offrire servizi adeguati a imprese e cittadini, si profila ora un fenomeno pericoloso che, se non tenuto in seria considerazione, può mettere in crisi settori primari di formazione e salvaguardia dell’individuo, come la formazione, la sanità e i servizi al cittadino.
Dopo una primavera 2023 in cui sono stati gli studenti a far emergere il problema dei grandi centri urbani diventati inaccessibili ai normali cittadini, si profila un autunno in cui a far notare l’insostenibilità economica di città come Milano, Bologna, Firenze, Venezia, ma anche della capitale Roma, sarà la vecchia classe media, quella del posto fisso e dello stipendio assicurato, storicamente considerata privilegiata e che comunque si attesta alla piccola borghesia italiana.
Lontani dalla realtà
Un fenomeno inedito, dunque, che si profila per la prima volta nella sua drammaticità in quanto potenziale indice di una mutazione sociale e generazionale e di un impoverimento strutturale del Paese. A pesare su questo quadro agisce il fenomeno inflattivo ormai divenuto strutturale anche per scelte politiche ,e non solo per dinamiche economiche.
L’esplosione dei prezzi dell’energia, per esempio, è stato un fenomeno di portata storica per entità e velocità della scalata dei prezzi, generato e giustificato dalla contrapposizione geopolitica occidente/oriente cui attiene il dietro le quinte della guerra in Ucraina e la successiva speculazione dei super-profitti delle multinazionali dell’energia.
Dall’altra parte, si è preteso di affrontare la questione della lotta all’inflazione con una miope risposta monetarista di stampo classico, si persiste nel combattere l’inflazione a colpi di aumenti di tassi d’interesse, quando le cause della scalata dei prezzi sono da ricercarsi per larga parte nelle scelte politiche: si veda la guerra, la contrapposizione Usa-Cina, le sanzioni alla Russia, la caduta del dollaro quale valuta di riserva mondiale nei confronti dei paesi Brics.
Questo non voler affrontare il problema alla radice è lesivo del benessere dei cittadini e rischia di peggiorare una situazione già di per sé molto grave. In termini più semplici, le famiglie si trovano ad affrontare mutui insostenibili per chi ha scelto il tasso variabile, affitti di lusso per un monolocale, bollette che in molti casi sono triplicate, aumento sostanziale del prezzo di pane, pasta, carne, frutta, verdura e di tutti i beni di prima necessità, e un’esplosione spesso ingiustificata del prezzo dei carburanti.
Un mix letale per i redditi che prima della pandemia erano sulla soglia minima della sostenibilità economica e che con uno stipendio che va dai 1.200 ai 1.800 euro netti oggi non riescono più ad assolvere alle spese primarie nelle principali città. Una situazione, questa, evidente ancor più nei centri turistici ed essenzialmente dovuta all’inaccessibilità del bene casa.
I vantaggi della contrattazione
Come lo stesso Bulgarelli, segretario della Cgil Bologna, fa notare, la questione non è solo da leggere sul piano dell’inflazione; infatti, la fuga dei lavoratori non interessa le Pmi e la manifattura. Questo perché la contrattazione integrativa di secondo livello, ovvero quella parte di contratto che consente di stabilire una contrattazione locale tra impresa e parti sociali, riesce a dare risposte più efficaci al mercato del lavoro, a corrispondere cioè alla perdita di potere d’acquisto dei lavoratori e a garantire così adeguati aumenti salariali.
I lavoratori del privato nelle zone ad alto tasso di know-how manifatturiero hanno un salario più alto dei colleghi che lavorano nel pubblico. Questo non perché nella pubblica amministrazione vi siano professionalità minori, anzi. Il problema, come spiega Bulgarelli, sta nel fatto che i contratti di infermieri, insegnanti, lavoratori della pubblica amministrazione, della cultura e del welfare sono fermi a dieci, se non a vent’anni fa.
La perdita del potere d’acquisto nel pubblico non ha visto una compensazione nell’aumento degli stipendi da molto tempo a questa parte. Una situazione storica dovuta essenzialmente a pregiudizi di carattere culturale che hanno coinvolto e coinvolgono ampie fasce della classe politica, sia di destra che di sinistra, e che non solo ha impedito gli aumenti salariali, ma ha anche agito con una scure su tutto il comparto dei servizi, portando a una situazione che da vent’anni a questa parte è sempre stata critica, alla sostanziale crisi odierna.
La piccola borghesia italiana, ovvero quel 30 per cento dei lavoratori con un reddito annuo tra i 18mila e i 26mila euro, in pochi mesi è precipitata sulla soglia della povertà, sommandosi al 44 per cento che vive con meno di 18mila euro annui perché non in grado di permettersi l’accesso ai beni primari.
Questo non accade in tutte le zone d’Italia. I fenomeni di licenziamenti, infatti, spesso prefigurano delle contro migrazioni dal Nord verso il Sud Italia e comunque dai grandi centri urbani verso la provincia: un trend di potenziale declassamento delle grandi città e un mutamento antropologico di queste da centri cittadini e comunità spesso di forte cifra culturale e identitaria a bene di consumo per il turismo globale.
È già successo a Venezia, come ben racconta Andrea Segre in “Welcome to Venice”, ma sta accadendo sempre più a Milano, Bologna, Firenze Roma, città trasformate in beni di consumo dove lentamente spariscono le botteghe, gli artigiani, le attività commerciali locali, e dove imperversano i b&b delle piattaforme social che, pur di garantire la speculazione a piccoli e grandi proprietari, buttano fuori dalle case giovani e lavoratori costretti a vivere a 40 anni come studenti universitari.
Tutto ciò mentre i grandi marchi dell’hi-tech, con loro infinite proposte di custodie per cellulari e beni usa e getta, congiuntamente al fenomeno dello street food che divora buona parte della ristorazione e ad altri fenomeni imprenditoriali della modernità, stanno cambiando i tratti antropologici e il Dna delle città e dei loro residenti, svuotando le comunità dai lavoratori sempre più poveri e smarriti e colti da questo grande senso di inadeguatezza propria della globalizzazione e che sa tanto di svendita.